Quando il “Falco” Marcelo Otero rifilò quattro goal alla Fiorentina
Per celebrare i 52 anni compiuti oggi da Marcelo Otero vi proponiamo il racconto della storica quaterna dell’ex attaccante uruguaiano del Vicenza, mattatore della prima di campionato 1996/97 stravinta dai veneti in casa dei viola di Ranieri: 2-4.
Anno 1996. Negli Usa Bill Clinton vinceva le elezioni presidenziali statunitensi, conquistando così il secondo mandato alla Casa Bianca; in Cecenia la guerra infuriava spaventosa, impartendo una lezione d’odio che gli uomini non si stancano mai di ascoltare, mentre in Colombia le Forze Armate Rivoluzionarie attaccavano una base militare, iniziando uno scontro durato settimane in cui morirono centinaia di colombiani. Nello sport, Michael Johnson segnava il nuovo record del mondo sui 200 metri col tempo di 19’’32, la Juventus conquistava ai rigori la Champions League contro l’Ajax e la Nazionale italiana di Sacchi usciva mestamente dalla fase a gironi degli Europei, poi vinti dalla Germania contro la Repubblica Ceca nella finale di Londra. L’otto settembre dello stesso anno, a Firenze, la Fiorentina di Claudio Ranieri si apprestava a disputare contro il Vicenza di Francesco Guidolin la prima partita del campionato di calcio 1996/97; ad arbitrare, il marchigiano Daniele Tombolini. Solo due settimane prima, il 25 agosto, la Fiorentina a San Siro aveva strappato al Milan la Supercoppa Italiana grazie a due gol del bomber argentino Gabriel Batistuta. Quando i viola entrarono in campo a raccogliere l’ovazione dei propri tifosi per quella vittoria, alzando gli occhi ebbero per un attimo l’impressione che il cielo fosse più scuro e opprimente di quello che solo poco tempo prima li aveva scrutati maltrattare il Milan di Tabarez. Ma scacciarono immediatamente quel pensiero, convincendosi che a sovrastarli, anche quell’otto settembre, doveva essere di certo lo stesso cielo. Tutta Firenze sembrava però prostrata in una specie di sopore, e appena terminata l’ovazione di rito, la vittoria di Milano somigliava già ad un ricordo un po’ sbiadito. La voce enorme e frammentata dell’altoparlante dello stadio Artemio Franchi riecheggiava nella città sospesa, e i pochi negozi rimasti aperti avevano qualcosa di transitorio, un sentore indefinito che veleggiava nel tempo dell’attesa. Sbucando dagli spogliatoi, il numero diciannove del Vicenza Marcelo Alejandro Otero scrutò la gente sugli spalti, e lì vide volti infuocati, respiri ansiosi, sguardi terribilmente vivi. Proprio in quel momento, chissà perché, l’ex bomber del Peñarol rivisse, come in uno strano presagio, un attimo cancellato dall’orizzonte dei propri ricordi, e tuttavia ancora da scrivere. Ricordò un immenso cortile assolato alla periferia di Montevideo, i cocci di bottiglie che sfavillavano al sole, i mattoni rotti, i gatti randagi che placidi assumevano pose sornione come a rimarcare la loro assoluta libertà, e ricordò di aver pensato che molti anni dopo avrebbe conquistato uno stadio dall’altra parte dello sterminato oceano con una partita indimenticabile. Non doveva rassicurare affatto i viola, il luccichio negli occhi di quell’attaccante e il sorriso sardonico di chi si sta prendendo gioco del mondo.
Marcelo Otero, nato a Montevideo nella primavera del 1971, prima di essere un ottimo calciatore era un uomo che amava le buone compagnie, meglio se di donne affascinanti, non disdegnando affatto qualche buon calice di vino rosso, come segnalato – ingenerosamente, secondo qualcuno – da certi verbali “galeotti” della Polizia Stradale. Ma nei primi minuti di quella sfida al Franchi, queste caratteristiche non riuscivano ugualmente a togliergli una vaga idea di disagio, la stessa che lo portava a guardarsi spesso intorno. Otero sembrava quasi temere l’approssimarsi di un’incombente minaccia, l’avvisaglia di un difensore viola che puntasse feroce alle sue caviglie, cercando di arpionare quel pallone che l’uruguagio custodiva gelosamente tra i piedi come un bambino egoista. Quel giorno poche volte, anzi praticamente nessuna, gli sfortunati difensori della Fiorentina riuscirono nell’intento. Correva con grande rapidità per gli ultimi venticinque metri della metà campo avversaria, Otero, astuto come un allevatore di cavalli di razza e scaltro come una salamandra del Rio della Plata, e i padroni di casa ne furono sconcertati sin dai primi minuti di gara. Da parte loro, i viola ci misero poche gambe, nessuno schema, zero idee. Più pimpante il Vicenza, anzitutto a centrocampo: a prendere per mano l’undici veneto c’era il destro educato di Jimmy Maini, ispirato direttore d’orchestra della sinfonia bianco-rossa. A sbloccare il risultato dopo soli 8 minuti è proprio Otero con una maestosa incornata su un pallone aereo, quasi a giustificare il soprannome che gli avevano affibbiato, il «Falco»: Toldo rimase attonito ad osservare la sfera che sibilava alle sue spalle e si andava ad insaccare in rete, mentre alle sue orecchie arrivavano i primi fischi dei tifosi di casa. Era solo l’inizio.
Al 29’ arriva il secondo gol vicentino, e a segnarlo è ancora l’uruguagio, ritrovatosi davanti a Toldo dopo aver inseguito un pallone proveniente dalle retrovie: dal destro di Otero partì un colpo preciso come un razzo lanciato tra le costole delle stelle, e fu 2-0. Ad accorciare le distanze poco dopo ci pensò Batistuta (36’), che con un colpo di testa deviato in rete da Sartor cercò di tenere in partita la Fiorentina. Il primo tempo si chiuse sul risultato di 1-2. Ranieri provò ad alzare il baricentro viola mettendo fuori Sandro Cois e inserendo Anselmo Robbiati, estroso folletto che nelle giornate felici trovava non di rado il guizzo decisivo. Sin dall’inizio del secondo tempo, il Vicenza continuò però a controllar bene il campo. Tra i padroni di casa a provarci ancora è solo l’indomito Batistuta, pericolosissimo per due volte: la prima è fermato dal numero uno veneto Mondini, ben piazzato tra i pali, la seconda dalla traversa. Le cose si misero davvero male per i viola quando al 60’ Carnasciali viene espulso, e fu allora che il Vicenza si sentì tranquillo nel prendere definitivamente il largo. Al 67’ è ancora Otero ad avventarsi sul pallone con la stessa leggerezza di un raggio di sole su una nuvola, triplicando da pochi passi: niente da fare per l’incolpevole Toldo e 1-3 per il Vicenza. Accorciò a dieci minuti dalla fine il belga Oliveira con un bel sinistro che suggellava una rabbiosa azione personale (2-3), ma a tempo già scaduto (91’) ecco il sigillo finale di Otero dal dischetto.
Fu allora che il «Falco» uruguagio scavalcò l’ennesimo abbraccio dei compagni, si fece largo in volo tra i corpi festanti dei vicentini e affrontò lo sguardo felice di Guidolin: «Sono quattro, mister». Francesco Guidolin era sulla panchina bianco-rossa dal 1994, proprio lui che da giocatore con i piedi buoni e le idee chiare aveva danzato per anni intorno al cerchio di centrocampo della rivale Verona; Guidolin, l’uomo pacato che parlava ai propri giocatori di sobrietà, un allenatore in bilico tra schemi tattici e meandri metafisici da esplorare. Il mister aveva regalato uno specchio a tutti i calciatori «in modo che possiate parlare con voi stessi», quasi fosse il Socrate di Castelfranco Veneto, a metà tra marcatura a zona e metodo maieutico, sospeso tra 4-5-1 e “Conosci te stesso”. Lo specchio, necessità edonistica di veder riflessa la propria immagine, quanto mai appropriata per un calciatore, ma anche sguardo più profondo su di sé. È vero, è insolito immaginare i calciatori immersi in tali ozi contemplativi, difficile credere che l’ottimo Murgita potesse infervorarsi per la conferenza in cui Freud venne quasi sbeffeggiato a Ginevra, o che Viviani si scontrasse con Cornacchini e Lopez sull’ermeneutica delle teorie psicanalitiche di Carl Jung, tanto per dire, ma è precisamente qui che finisce la cronaca e inizia la magia. «Vola Marcelo Otero vola, la curva si innamora» cantava forte a fine partita il gioioso drappello di tifosi vicentini in trasferta. Il tabellone luminoso del Franchi, perduto tra il cielo e la terra come la guglia di una cattedrale gotica, con al centro l’orologio che aveva già parlato a tante generazioni di tifosi della transitorietà del tutto e della brevità della vita umana, dunque non solo di una partita di calcio, segnava il risultato definitivo: 2-4 per il Vicenza. Quando già l’eco degli ultimi cori dalle gradinate si era spento e i calciatori si avviavano verso gli spogliatoi, qualcuno giurò di aver sentito Marcelo Otero mormorare, come se parlasse a sé stesso: «Dovrebbe essere settembre tutto l’anno».