Enzo Francescoli, il Principe che giocava da Re
“In Sardegna, tra gente rimasta appartata e quasi isolata dal resto del mondo, si prolunga, più che nelle altre regioni, una facoltà primitiva di mescolare la realtà alla leggenda e al sogno.” (Guido Piovene)
Quando portava palla, dalla trequarti fino all’ingresso in area, sembrava andare a tempo con le note del vento; specialmente con quello che in certe domeniche pomeriggio soffiava allo stadio Sant’Elia, al punto che le bandierine dei quattro angoli sembravano stirate da dita invisibili. Oppure erano mani di stoffa, che tentavano di congiungersi per unirsi agli applausi con cui i tifosi rossoblu sembravano quasi ritmare in sottofondo lo spartito delle finte.
El principe si era presentato in Sardegna in livrea, alla fine dell’estate del 1990: sempre e soltanto così l’avrebbero visto; come se tacchetti e parastinchi si confondessero nei motivi ornamentali che disegnava sul terreno innanzitutto con il destro, poi con quell’altro destro cucito sotto la caviglia sinistra. Questa è l’esatta proporzione dei suoi ferri del mestiere e chiaramente parliamo di uncinetto, per come ricamava l’azione, ordendone le trame, definendo il decoro.
La gente di Cagliari, mentre si trovava a considerare che erano trascorsi vent’anni dallo scudetto più autarchico ed estemporaneo che la Serie A abbia mai raccontato, ancora non poteva sapere che, battendo il tempo su una punta di cuoio, a un Cagliari diversamente memorabile, ma amato quasi alla stessa maniera, stava per dare il “la” un direttore d’orchestra che nessuno, sull’isola, avrebbe creduto di potersi permettere.
Enzo Francescoli, da Montevideo. Già eroe dei due mondi calcistici, attraversando una carriera in diagonale; come la banda rossa che percorre la maglia del River Plate, che sarebbe stato poi la cuccetta lussuosa del suo bastimento da emigrante arricchito di gloria, lungo un oceano di ritorno al termine di una carriera cucita su misura per le suggestioni che evocava ogni sua giocata, eseguita con la solennità di un dignitario indiano.
Ma era un’epoca in cui il calcio italiano ancora poteva permettersi il lusso più estremo: non quello di ospitare i più grandi fuoriclasse del panorama mondiale, ma quello, davvero sfarzoso, di poter vedere più d’uno di questi artisti esibirsi fuori dal circuito metropolitano della Serie A; accasarsi in provincia, farsi carico dell’orgoglio e dei sogni di tifoserie che negli anni a seguire non avrebbero più potuto nemmeno sognarlo, un nome come quello di Francescoli sul tabellone dello stadio di casa.
Herrera, Fonseca y El Principe, per l’appunto: l’anima uruguaiana di un Cagliari che non sarebbe mai arrivato dove arrivò quello di Gigi Riva, ma del quale Riva per primo non poté che sentirsi orgoglioso, perché il gagliardetto dei Quattro Mori tornava a occupare, orgogliosamente, la cronaca, non più soltanto la storia; senza dover per forza rammentare quell’epico 1970, quasi irreale nel ricordo. Fino al sesto posto del 1993, con Carlo Mazzone in panchina e Francescoli che dalla trequarti in poi apriva vedute sul golfo, dalla veranda sopra l’impalcatura del gioco eretta da Gianfranco Matteoli.
Se dovessimo scegliere, tra le grandi giocate regalate mentre vestiva il rosso e il blu, quella che più testimonia la sua classe e l’empatia tecnica con la fase offensiva, che sembrava arrotondare la palla un po’ più del normale, ci andremmo a riguardare i fotogrammi dell’azione con cui El Principe realizza il momentaneo due a due contro la Sampdoria che ha il Tricolore sul petto, nella prima giornata della stagione ‘91 – ‘92: quasi cammina sul pallone, piroettando, sulla trequarti sinistra; punta Mannini e lo smaterializza, fintando; accelera come se volesse puntare il fondo, invece sterza di nuovo, come se il copione dell’azione lo avesse già imparato a memoria: ha nello sguardo già l’approdo della traiettoria, prima ancora di aprire il compasso con l’interno destro. La palla a quel punto non la calcia: la soffia, a mezza altezza, verso il palo più distante, un millimetro prima, un nonnulla dentro. Il guanto di Pagliuca proteso invano serve solo come punto esclamativo.
Ed è in momenti così che sta il motivo per cui in Sardegna ha lasciato qualcosa di più importante persino dei risultati e del ritorno in Europa: la percezione di una grandezza tecnica, di un lusso finalmente concesso, ripetibile nella gara successiva. Ed è un concetto che non vale soltanto per la tranche italiana della sua carriera, compresa l’annata col Torino giocata sul dolore e sull’intermittenza della preparazione. Vale per il River prima e dopo, per i cinque campionati vinti in Argentina, per la Coppa Libertadores che si era promesso; per lo scudetto vinto col Marsiglia; per le tre Coppa America con la Celeste: più fulgida del palmarès, ragguardevole, del Principe, è la memoria di un calcio esibito sempre con la pochette nel taschino, con il nodo impeccabile della cravatta, come se la sua andatura fosse disegnata a matita sull’erba; come se non pesasse nemmeno quella settantina di chili; come se avesse le ossa cave che hanno gli uccelli.
Chiedete a Pelé perché non ha esitato un attimo, a proposito del suo nome, nell’inserirlo nella galleria dei più grandi della storia della FIFA; chiedete a Zidane perché non abbia dubbi, ogni volta che gli chiedono chi sia stato il suo idolo.
Soprattutto, chiedete alla palla il motivo per cui appaia imbronciata ogni volta che qualcuno lo chiama soltanto Principe, lei che sin dalla prima volta che il destro di Francescoli l’ha portata a braccetto si è sempre sentita una regina.
Foto copertina: Cagliaricalcio.com