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Enrique Guaita, il mistero della guardia carceraria campione del Mondo

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Enrique Guaita, il mistero della guardia carceraria campione del Mondo

Il 15 Luglio 1910 nasceva in Argentina Enrique Guaita, l’oriundo dell’Italia che da guardia carceraria divenne Campione del Mondo. La sua storia, ancora oggi, è avvolta nel mistero. Ve la raccontiamo.

Vittorio Pozzo, storico CT della Nazionale italiana, non ha mai abbandonato un suo pupillo. Lo ha dimostrato nel 1934 al mediano Attilio Ferraris IV, ormai fuori forma da mesi, presentandosi nella bisca dove il giocatore era solito giocare d’azzardo convincendolo ad abbandonare fumo e alcool per tornare ad allenarsi in vista del Mondiale poi vinto. E lo ha dimostrato nuovamente questa volta non in un bar di Montecatini ma in Sudamerica, a Buenos Aires per la precisione, cercando di mettersi in contatto con un suo ex giocatore in nazionale che stava lavorando come direttore del carcere di Bahia Blanca. E’ Enrique Guaita il calciatore in questione che a Bahia Blanca ci morì, pochi anni dopo essere licenziato, in povertà e abbandonato da tutti ma non dall’allenatore che gli permise di vincere la coppa del mondo del ’34.

Il gol contro l’Austria: Meazza è finito in fondo alla rete, Guaita anticipando Platzer infila.

Enrique Guaita nasce calcisticamente nell’Estudiantes e nella squadra argentina conquista la convocazione nella selezione del suo paese. Dai tifosi viene soprannominato “Gentleman” per via di una sua confessione all’arbitro di aver segnato di mano in una gara contro il San Lorenzo. Le prestazioni di questa ala velocissima e possente non passano inosservate e il “Banchiere di Testaccio”, Renato Sacerdoti, presidente della Roma, lo acquista nel 1933 insieme agli altri due gioielli, Stagnaro e Scopelli. L’approccio al campionato italiano è ottimo: 14 reti in 32 gare la prima stagione, 28 reti in 29 partite la seconda che gli valgono il titolo di capocannoniere. Una volta ottenuta la cittadinanza italiana, Vittorio Pozzo non può ignorarlo e lo convoca per la prima volta in occasione della gara Svizzera-Italia 0-2: Guaita segna due gol e mostra al pubblico italiano le sue qualità straordinarie. Il pubblico giallorosso di Testaccio è pazzo di lui e lo ribattezza “Il Corsaro Nero” per via della maglia scura che caratterizzava la squadra capitolina in quell’anno.

Il CT Pozzo sempre più innamorato calcisticamente dell’Ex Estudiantes decide di convocarlo per il Mondiale del ’34, Guaita segna il gol decisivo nella gara della semifinale contro l’Austria finita 1-0 e permette all’Italia di accedere alla finale che sarà vinta contro la Cecoslovacchia. Nulla sembra poter scalfire quella che si preannuncia una luminosa carriera nelle fila della Nazionale e della Roma. Ma alla vigilia della stagione 1935-36, una telefonata anonima alla sede della As Roma sconvolge la dirigenza romanista e il calcio italiano sotto il regime fascista: i tre oriundi Guaita, Stagnaro e Scopelli sono fuggiti a Marsiglia dove si sono imbarcati per Buenos Aires per paura di essere arruolati nella prossima guerra in Etiopia. La situazione va fuori controllo: qualcuno accusa Guaita di traffico illecito di valuta per via del suo ricco contratto appena rinnovato con il nuovo presidente Scialoja (Sacerdoti, ebreo, fu costretto alle dimissioni), qualcuno vede le società rivali della Roma responsabili di aver messo all’orecchio dei tre campioni voci false sull’arruolamento in guerra.

Il littoriale che una settimana prima aveva descritto Guaita come un “fuoriclasse”, ora tuona con un titolo a caratteri cubitali: “SCHIFO”, continuando così: “Di pecore travestite da leoni non abbiamo bisogno. Non erano italiani, la vigliaccheria non può aver diritto di cittadinanza nel nostro paese. Siamo contenti di questo gesto come di una purificazione”. I tre fuggiaschi, tornati in patria, giocano alcune stagioni al Racing club. Guaita segna a valanga nella squadra biancoazzurra e nella stagione 1938, sommerso dalle critiche, decide di chiudere la sua carriera, a soli 29 anni, dove era iniziata, all’Estudiantes. Una carriera bruciata seguita da una fine ancor più triste. “Io faccio i gol, non la guerra” pare disse ai giornalisti. Per seguire le malelingue, non fece né l’uno né l’altro.

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