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Elio De Angelis, il pilota e il pianoforte

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Elio De Angelis, il pilota e il pianoforte

“Io son partito poi così d’improvviso

che non ho avuto il tempo di salutare

l’istante breve ma ancora più breve

se c’è una luce che trafigge il tuo cuore”

Mogol – “L’arcobaleno”

Le note, le mezze note, i toni, i timbri: delicatissimi gli equilibri, pur nel frastuono. Perché era la sua musica preferita, lui che la musica la conosceva davvero, quella del vecchio Cosworth i cui acuti cominciavano a non bastare più; oppure quella del nuovo turbo che divorava la pista con più voracità, con un fragore che piegava il collo, che spezzava la schiena.

Suonava il pianoforte, il pilota di Roma.

Con l’aria di chi è nato senza rischi da correre, eccetto quelli che sceglie da sé, con tutto l’amore che può.

Potrebbe diventare un compositore, non gli difettano certo il talento, o l’attitudine; solo una cosa riesce a stregarlo più della musica, distogliendolo dai bianchi tasti grandi e da quelli neri, più piccoli: è la vibrazione che alle mani trasmette il volante, dopo l’inizio di quel concerto così speciale che per sopportarlo ci vogliono i tappi alle orecchie.

Elio De Angelis, figlio di un costruttore romano: vita agiata, profilo elegante, d’una eleganza e di un garbo naturali; basta guardarlo per comprendere tutta la differenza che passa tra l’essere ricchi e l’essere nobili, non per diritto di nascita ma di stile: quello o lo si possiede naturalmente, oppure non c’è nulla da fare; nessun conto in banca potrà mai garantirtelo. I soldi possono certamente aiutarti a cominciare, nel mondo delle corse, che non è roba per tutti da nessun punto di vista, a cominciare dal portafogli. Però non si ha notizia di nessuno che sia diventato pilota sul serio e poi campione, soltanto perché ricco. Nessun figlio di papà ha mai potuto farsi comprare la classe e il talento dal proprio genitore: è come per lo stile, certe doti o le si assimila dalla placenta o non le si potrà mai ottenere a colpi di sponsorizzazioni.

Si capisce da come guida e da come vince sui go-kart che non sarà mai uno dei cosiddetti “pay – driver”, cioè quelli che dovranno sempre pagare per correre, Elio: da teen-ager vive l’escalation che gli fa attraversare Formula Tre e Formula Due, non solo vincendo ma anche e soprattutto finendo sui taccuini dei vari talent-scout della Formula Uno. Persino Enzo Ferrari gli mette gli occhi addosso, pur con tutta la diffidenza che il Drake ha sempre avuto nell’affidare la Rossa a piloti italiani. A offrirgli il primo volante nella massima formula sarà il team Shadow, una delle tante scuderie-meteora che tra la metà degli anni settanta e l’inizio degli ottanta affollano il Circus; De Angelis patisce poco o nulla il definitivo salto di categoria, l’approdo nell’olimpo delle corse a ruote scoperte. Con la monoposto americana – tutt’altro che performante in quella stagione – della scuderia dell’istrionico Don Nichols, ex agente CIA, chiude il 1979 con un onorevolissimo quarto posto nel Gran Premio degli Stati Uniti, a Watkins Glen. È da quel momento che comincia la storia sulla quale Elio da piccolo aveva sempre fantasticato, perché i piloti italiani sognano quasi tutti di approdare alla Ferrari, un giorno; in quel “quasi” si fissa lo sguardo romantico di un bambino romano che si era innamorato delle corse vedendo passare Jim Clark, a bordo della sua Lotus all’epoca verde, con una striscia gialla. Colin Chapman non se lo fa sfuggire, crede in lui da subito, al punto tale da accollarsi le penali per la rescissione del contratto con la Shadow.

È diventato grande, il pilota di Roma, con la sua espressione a metà tra dolce e malinconica; con il suo sorriso timido, appena abbozzato, proprio come quello di Clark; con quel suo casco così particolare, che sotto la visiera ricorda quello di un pilota di motocross, o di un personaggio di “Guerre stellari”. Strano che un casco così possa nascondere un viso elegante al punto tale che lo si immagina abbinato a un abito scuro da concertista, seduto al pianoforte che ama tanto, a sciogliere note con le stesse dita che disegnano traiettorie, che innestano marce frenetiche. Non è un caso che la sua guida veloce sia anche così nitida, così pulita. Il privilegio di curare la cosa che ama Elio lo vive due volte: calandosi nell’abitacolo, sollevando il panno verde che copre i tasti. Perché in entrambi i casi è una questione di istanti, anzi di decimi di secondo, come quei pochi che riesce a mettere davanti a Keke Rosberg nell’ultimo giro del Gran Premio di Zeltveg del 1982, quando la Williams del finlandese, futuro Campione del mondo, ulula di frustrazione fin sotto la bandiera a scacchi,  che Elio saluta per primo, con la sua Lotus tornata nera e oro, come ai tempi di Fittipaldi, di Andretti, di Peterson. 

E un’altra vittoria, a San Marino nel 1985, le pole position e un terzo posto nel campionato del mondo del 1984, con 34 punti, sarebbero arrivate negli anni in Lotus: la sua scuderia naturale, quella che non avrebbe mai lasciato, anche perché vi aveva trovato un secondo padre, quel Colin Chapman che per lui stravedeva, che se n’era andato di colpo nel dicembre del 1982, dopo una vita di azzardi, creatività, intuizioni ingegneristiche e pubblicitarie.

Nel frattempo, in una difficile fase di trapasso dall’era degli aspirati a quella dei turbo, inaugurata dalla Renault, troppe cose sarebbero cambiate in seno alla scuderia di Hethel. E sarebbe arrivato Ayrton Senna, col suo talento da fuoriclasse predestinato e con la sua vagonata di sponsor.

Obbligata la scelta di reinventarsi, di cambiare aria dopo essersi dimostrato competitivo, affidabile e vincente, per Elio De Angelis: a ventotto anni la sua carriera sposa le incertezze e le scommesse della Brabham. Anche la scuderia fondata dal mitico Jack attraversa una fase di transizione, dopo i fasti dei titoli mondiali 1981 e 1983 vinti da Nelson Piquet. Il progettista Gordon Murray ha ideato la “sogliola”, vettura bassissima e piatta, che si pilota praticamente sdraiati: è la BT55, la prima col telaio interamente in fibra di carbonio. Macchina sbagliata, per tanti aspetti, dalla distribuzione dei pesi ai particolari meccanici. Vari i ripensamenti, gli accorgimenti, i passi indietro ipotizzati a stagione in corso dal punto di vista telaistico e motoristico.

Ha una nuova, voluminosa appendice aerodinamica, la sogliola: è l’alettone posteriore, che la sovrasta, che dovrebbe avere il compito di riequilibrarla, di schiacciarla a terra assecondandone il passo lungo.

Come tante altre scuderie, anche la Brabham sta effettuando i propri test privati lungo il tracciato del “Paul Ricard“, a Le Castellet, il 14 maggio 1986. Circuito lungo, spazioso, dove Ayrton Senna, transitando per i propri giri la mattina precedente, si sorprende nel non vedere quasi nessun addetto alla sicurezza, quasi nessun estintore; poi se ne dimentica, perché ogni pilota pensa sempre che non sia affar suo, quella soglia di rischio che lo fa apparire folle agli occhi degli altri.

Cos’è una nota stonata? È qualcosa che interrompe; che spezza una melodia, un destino. È un alettone che si stacca, una monoposto malriuscita che decolla, non si sa verso dove, perché nessuno lo sa.

L’unica cosa che si distingue in mezzo al fumo sono gli altri piloti, i soli davvero fedeli, pur nella rivalità; partecipi di quel pericolo che avrebbe potuto scegliere un altro, fra loro. Si ferma Prost, per primo, cercando un estintore, maledicendo i ritardi della sicurezza; si ferma anche Rosberg, fratello di quel duello e di quei centimetri di Zeltveg, quando Elio mise per la prima volta il muso della Lotus davanti a tutti.

Cosa si scorge, tra il nero della benzina e il bianco dell’olio? Ognuno ci vede quello che vuole: il titolo mondiale che Elio prima o poi avrebbe conquistato, la bellezza dei ventotto anni, così giovani e maturi al tempo stesso; il mezzo sorriso dolce, educato. Poi, ci pensa sempre il vento, a rivelare come stanno le cose: il vento che diffonde i toni di una melodia, senza che nessuno pensi mai che debba ascoltare una stonatura; il vento che dirada i fumi, che svela telai e lamiere; che asseconda la musica degli strumenti e quella dei motori; che sfida lo sguardo di chi vede passare le macchine da corsa, che quando si accende la luce rossa della frenata sembra che lo sguardo possa trattenerle per un attimo, invece poi svaniscono di nuovo come le note di uno spartito.

Suonava il pianoforte, il pilota di Roma.

Romano, 47 anni, voce di Radio Radio; editorialista; opinionista televisivo; scrittore, è autore di libri sulle leggende dello sport: tra gli altri, “Villeneuve - Il cuore e l’asfalto”, “Senna - Prost: il duello”, “Muhammad Ali - Il pugno di Dio”. Al mattino, insegna lettere.

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