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Elia Viviani, sulle spalle dei giganti

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Elia Viviani sulle spalle dei giganti. L’oro olimpico nell’omnium non è solo il trionfo del talento e dell’audacia contro le avversità e una caduta che stava per rovinare tutto. Non è solo un premio per quattro anni di sudore e sacrifici dopo la delusione di Londra. È un trionfo che riporta l’Italia al centro della geografia del ciclismo su pista, disciplina che si nutre di audacia, brivido, coraggio. Un mondo adulto in cui l’Italia ha fatto scuola, che nel primo Novecento crea più idoli e passione del calcio. Alla pista arrivano anche Guerra, Binda e soprattutto Coppi per il record dell’ora nella magia del Vigorelli di Milano dove, parola del primatista mondiale Primo Bergomi, “se non hai classe, pedali nel vuoto”.

Negli anni dei campioni che corrono per rabbia o per amore, negli anni del “Calcio e Ciclismo illustrato”, la passione per la bicicletta fa l’Italia e gli italiani più di Garibaldi. Il Veloce Club Torinese, fondato da Giovanni Agnelli e dal conte Roberto Biscaretti di Rufia, promuove la costruzione della prima pista e la creazione del primo giornale specializzato, la Rivista velocipedistica. Torino ospita, nel 1884, il primo campionato italiano, in piazza d’Armi, in occasione dell’Esposizione generale. Roma, al velodromo di porta Salaria, è lo sfondo del primo Campionato del Mondo disputato in Italia. Vittorio Emanuele III premia Ellegaard con un cronometro d’oro. Ha visto cadere Gerbi nel mezzofondo professionisti e il quarto posto di Giuseppe Nuvolari, fratello di Arturo e zio di quel Tazio che di velocità avrebbe vissuto su quattro ruote con un motore ad attirare la fantasia per generazioni.

La storia di Viviani è geografia della pista. Un viaggio che inizia all’Isola della Scala, un centinaio di chilometri dal primo stadio comunale d’Italia, il “campo sportivo per educazione fisica e dei giuochi”, per tutti il velodromo Giovanni Monti di Padova. Calcio e ciclismo si dividono la scena, con la bicicletta a far da prim’attore, ancora per un po’. È qui che Severino Rigoni prepara le Olimpiadi di Berlino. Tornerà a casa con un argento e si metterà ad allenare la società Ciclisti padovani, che si riempiranno di gloria a Roma 1960 e Tokyo 1964 e regaleranno al mondo un altro pluricampione come Leandro Faggin, tre volte campione del mondo nell’inseguimento fra il 1947 e il 1966. è il ventennio d’oro per l’Italia che di titoli ne conquista altri tre con Guido Messina e due con Coppi e Bevilacqua.

Poi la scuola sfiorisce, fino all’isolato trionfo di Francesco Moser al Velodromo degli Ulivi di Monteroni, con la sua pista in legno pregiato fatta arrivare appositamente dall’Africa. È il 1976:  quarant’anni dopo, lo scorso marzo, un piemontese di 19 anni, Filippo Ganna, riporta l’Italia al centro del mondo. Un ritorno alle origini, alla culla della pista tricolore, per guardare lontano.

Ha guardato più lontano di tutti Viviani. Ha voluto la tecnologia e la ricerca al servizio della fatica.. Ha ricercato l’aerodinamica al Politecnico di Milano. E Milano vuol dire soprattutto Antonio Maspes, maestro nel sublimare la bicicletta in un esercizio boccioniano di ricerca della velocità. Scattista formidabile, appassionato di motociclette folgorato sulla via dei velodromi, trucca il certificato di nascita per vincere il primo campionato italiano. Diventerà uno dei migliori velocisti di sempre, la punta di un sogno azzurro che non tornerà più, della generazione d’oro di Beghetto, Bianchetto, Gasparella, Ogna, Pettenella, Sacchi, Gaiardoni e Lombardi.

Ha trionfatto sotto gli occhi commossi di Silvio Martinello, che l’impresa di Viviani l’ha raccontata per la Rai. È il miglior velocista della sua generazione e vive l’evoluzione della disciplina che cerca di mantenere il vecchio interesse con la rivoluzione del calendario olimpico e l’introduzione di nuove specialità: il keirin (due ori mondiali Golinelli nel 1988 e 1989), l’indivuale a punti (due titoli di Martinello nel 1995 e 1997), la velocità olimpica open, l’americana (Martinello-Villa trionfano nel 1995 e 1996), lo scratch.

Padovano di Tencarola, oro olimpico nella corsa a punti, Martinello è un eclettico, un artista multiforme della bicicletta. Come i campioni delle origini, si divide fra la strada e la pista. Indossa la maglia rosa al Giro e di vince 28 Sei giorni, più di tutti in Italia. Non a caso, è una figura chiave nella ristrutturazione del Monti di Padova, di nuovo inaugurato il 6 luglio 1998.

Un cerchio si chiude. Un’altra storia si è riaperta a giugno, quando Francesco Moser ha testato la nuova pista del Vigorelli dove non si corre dall’11 settembre 2001, dalla prova di campionato italiano interrotta per l’attacco alle Torri Gemelle. Tra le pagine chiare e le pagine scure, Elia Viviani ha messo anche il suo nome nella storia del ciclismo azzurro. Sulle spalle dei giganti.

 

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