Se la stagione della Ferrari fosse un trending topic, l’hashtag “delusione” occuperebbe il primo posto e sarebbe difficile da scalzare. Il campionato del mondo 2016, il più lungo di sempre (21 gare), è stato uno dei più amari nella storia del Cavallino Rampante in sessantasette anni di F1. Non tanto per l’assenza di vittorie – come altre cinque volte nell’ultimo trentennio (1986, 1991, 1992, 1993, 2014) – quanto per l’enorme divario tra le aspettative dell’inizio, dove si parlava di lotta per il titolo iridato, e il rendimento finale, che ha visto la Ferrari arrivare dietro non solo alla Mercedes, ma anche alla Red Bull (quarta forza del 2015).
A dolere Maranello, un bilancio inferiore all’anno precedente anche negli arrivi a podio (11 a 16) e nelle pole-position (0 a 1). A salvarsi, i giri veloci in gara (3 a 3), ma nel 2016 si sono comunque disputate due gare in più.
È vero, esprimere una valutazione sulla base dei soli numeri sarebbe ingeneroso e poco intelligente. Ciò che conta è capire le origini di queste cifre. E di altre. Come l’assenza di partenze dalla prima fila (a Sochi, secondo tempo per Vettel, ma a sette decimi da Rosberg e prima di perdere cinque posizioni per la sostituzione del cambio). Un dato sintomatico perché non riuscire a piazzarsi davanti alla concorrenza dopo aver corso su ogni tipologia di circuito e in qualsiasi condizione climatica (neve a parte), significa che la vettura non è mai stata in grado di lottare con i primi. Alla Ferrari, in definitiva, è mancata la velocità. Un deficit accusato dall’estate in avanti perché fino a Baku (Gran Premio d’Europa, 19 giugno) Vettel e Raikkonen erano all’inseguimento dei due della Mercedes e la scuderia era al secondo posto nei Costruttori, potendo vantare anche otto podi in altrettante gare. Da quel momento, l’inizio del declino, culminato con il sorpasso della Red Bull che, oltre a vincere in Malesia con Ricciardo, ha meritato il ruolo di seconda forza del campionato.
Ma perché è mancato il salto di qualità? Per altre ragioni, nell’era della rivoluzione digitale sintetizzabili con un altro hashtag: “confusione”.
A marzo, in concomitanza con la gara d’esordio in Australia, James Allison, il direttore tecnico padre della SF16-H, fu colpito da un improvviso lutto famigliare e gli fu concesso tutto il tempo che riteneva necessario per stare vicino ai figli. Al suo posto però non subentrò subito una nuova figura, come avvenuto con Mattia Binotto (capo dello sviluppo dei motori) a fine luglio, quando Allison ha risolto il contratto con la scuderia e quando era ormai troppo tardi per il campionato, ma fu portato avanti il lavoro nell’attesa di un rientro a tempo pieno dell’ingegnere britannico. Rientro che non c’è stato. Risultato? Esauriti i benefit delle prime novità aerodinamiche, la Ferrari non è più riuscita a eguagliare le prestazioni della Red Bull, che, grazie all’introduzione di nuovi cavalli nel motore, ha messo le ali ed è diventata irraggiungibile.
Dalla fabbrica, la confusione si è riversata anche in corsa con scelte ardue da comprendere – Vettel tenuto fuori oltre il dovuto in Austria finché si è ritirato per il cedimento di una gomma – o con tattiche spesso fotocopia di quelle Mercedes. Tipo il terzo pit-stop di Raikkonen a Singapore, quando era stato autore di un magistrale sorpasso in staccata su Hamilton e, complice un circuito stretto, avrebbe potuto difendere con i denti il terzo posto. Il divario dai rivali si colma non emulandoli, ma escogitando soluzioni alternative. Tipo Abu Dhabi, dove Vettel è finito sul podio.
Precisando che i piloti hanno avuto responsabilità (poche) inversamente proporzionali il loro valore (enorme) e spostando infine l’analisi sul piano delle public-relation, a condizionare il 2016 Ferrari anche le dichiarazioni della vigilia – duello per il Mondiale con sole tre sedute di test invernali come unico parametro di riferimento – e le notizie apparse sulla stampa che mettevano in discussione il futuro di Maurizio Arrivabene e appesantivano un’atmosfera già frustrata dalla mancanza di risultati. L’attuale team principal è stato autore di un gran lavoro, restituendo entusiasmo all’ambiente tanto che le tre vittorie del 2015 sono innanzitutto ascrivibili a un ritrovato spirito di squadra, ingrediente fondamentale in ogni successo sportivo di gruppo e da inserire al primo posto nella ricetta del 2017. Dove sarà preferibile dichiarare non di puntare al titolo, ma di ritrovare quella competitività perduta.
La filosofia step-by-step motiva e, al contempo, riduce quelle pressioni amplificate dalle sconfitte e inevitabili in un ambiente come Maranello. Perché la storia della Ferrari pretende sempre di dare il massimo. Ed è sempre quella storia a insegnare come l’organizzazione, dentro e fuori la pista, sia un punto di forza imprescindibile per stare ai vertici della F1.
Le vittorie del 2015, più che all’entusiasmo portato da Arrivabene, sono dovute ad un progetto tecnico portato avanti con successo dalla precedente dirigenza che aveva impostato un mezzo solido e competitivo.