E’ finita. La serie più emozionante di questi playoff si è conclusa, i Warriors alla fine sono riusciti a imporsi sui Thunder. Di queste 7 spettacolari partite ricorderemo sicuramente i 41 punti in gara 6 di Thompson, con tanto di 11 triple, lo strapotere di Westbrook e Durant in gara 3 e 4, la reazione impetuosa dei campioni in carica, capitanati da Steph Curry.
Eppure non possiamo dimenticarci di lui. Il giocatore che più di tutti è stato determinante nella vittoria a sorpresa dei Thunder sugli Spurs di Popovich in semifinale di Conference. Il giocatore che più ha fatto tremare i Warriors, diventando una spina nel fianco inestricabile per i ragazzi della Baia. Un personaggio sui generis, un’icona per i tifosi, una roccia in mezzo al campo: Steven Adams, il baffo più famoso dell’NBA.
Eccentricità. E’ questa la prima parole che viene in mente se si pensa ad Adams. Un gigante di 213 centimetri, con un paio di baffi molto insoliti, che lo rendono molto rude, aggressivo e lo trasformano in una via di mezzo tra Johnny Depp in Mortdecai e lo spietato “Sentenza” ne “Il buono,il brutto, il cattivo”.
E per comprenderne l’eccentricità bisogna partire per un lungo viaggio, alla scoperta del background in cui è vissuto. Destinazione? Rotorua, Nuova Zelanda.
E’ infatti qui che Steven è nato il 20 luglio del 1993. Il padre, Sid Adams, un ragazzone con un passato nella Royal Navy, si era presto stancato della vita nella sua Bristol e nei primi anni ’60 aveva deciso di emigrare in Nuova Zelanda. Qui, dopo una pena detentiva dovuta al reato di immigrazione clandestina, si era sposato con una donna del luogo, che sarà solo la prima delle cinque mogli di Sid, con le quali avrà ben 18 figli.
Steven è l’ultimo figlio di Sid, e viene educato dal padre in modo poco ortodosso, ossia a suon di ceffoni. Ma Steven gli è comunque molto legato, per lui è una figura fondamentale, visto che con la madre ha pochissimi contatti. Per anni la sua è una vita semplice e tranquilla, all’insegna della frugalitas oraziana, visto che uno dei suoi fratelli ha una fattoria poco fuori Rotorua e Steven passa le giornate lì, a lavorare i campi e nutrire gli animali.
Diventare un contadino è uno dei suoi sogni nel cassetto. Ha sempre vissuto in un mondo incontaminato, lontano dalla mondanità. Quell’ambiente così bucolico è l’unico in cui si trova veramente a suo agio. Anche se in realtà, di sogno ne ha un altro: diventare un All Blacks.
Del resto, la Nuova Zelanda è la patria del rugby, tutti i ragazzini si immaginano a rappresentare il loro Paese, incutendo terrore negli avversari con l’inquietante danza Mahori. Eppure, quelle di Steven non sono semplici fantasticherie. D’altronde, la sua famiglia è piuttosto particolare, visto che l’altezza media dei suoi fratelli è di 2 metri e 6 centimetri e lui già dà l’impressione che diventerà un gigante. I sogni di Steven di diventare un All Blacks sono tutt’altro che irrealizzabili.
Ma all’età di 12 anni perde il padre, a causa di un cancro allo stomaco. Privato del suo pilastro, Steven inizia a sbandare, saltando la scuola spesso e frequentando cattive compagnie. Allora Warren, uno dei suoi fratelli maggiori, decide di fargli cambiare aria: lo porta a Wellington, dove lo affida a Blossom Cameron, sua cara amica nonché giocatrice professionista di basket.
La donna non solo cresce quel ragazzone che già sfiora i 2 metri, ma lo introduce al mondo del basket, presentandolo a Kenny McFadden, ex-giocatore che tiene un’Academy a Wellington. Kenny vede del potenziale enorme in Steven, al punto che lo accetta nella sua scuola gratuitamente, sapendo che non può permettersi di pagare la salata retta annuale.
Da lì, per Steven si aprono le porte del paradiso. Non solo inizia ad amare il basket alla follia, ma sembra essere incredibilmente portato per quello sport così poco praticato da quelle parti. McFaffen capisce di avere fra le mani un gioiello grezzo, per questo contatta il suo vecchio amico Jamie Dixon, coach universitario ai Pittsburgh Panthers, che viaggia fino in Nuova Zelanda ben cinque volte per visionare Steven, finché non lo convince a firmare il contratto della vita: Steven lascia la Nuova Zelanda, alla conquista dell’America.
Il resto è storia. L’anno universitario in cui si fa le ossa e mostra ottime doti difensive e a rimbalzo, l’approdo ai Thunder con la dodicesima chiamata al draft 2013, il primo anno da rookie in cui impara molto, soprattutto dal veterano Kendrick Perkins, che gli insegna ad essere duro in campo.
Il secondo anno si fa piano piano strada, scala le gerarchie del roster e gioca quasi sempre titolare, sfoderando ottime prestazioni per un sophomore. Finchè poi nell’ultima stagione diventa un’asse portante della squadra, trovandosi a meraviglia con Westbrook. E non è tutto: nei playoff diventa un mito indiscusso per i tifosi, che danno vita ad un’imprevedibile “Adams-mania”.
Ciò che sorprende il pubblico, quando è in campo, è la sua incredibile capacità di assorbire i duri contatti con gli avversari. Lo ha dimostrato nel 2014, in un tiratissima gara6 contro Memphis, quando Zach Randolph, innervosito dal suo modo di sopportare le sue sportellate, non ha potuto fare a meno di lanciargli un pugno, venendo poi escluso dalla fatidica gara 7. E lo ha dimostrato anche quest’anno, quando si è beccato un calcio sugli “attributi” da parte di Draymond Green, nella serie contro i Warriors.
Un individuo fuori dagli schemi, un contadino mancato, un rugbista Mahori, un personaggio da film western, una stalattite sul parquet. Incredibile come tante descrizioni così diverse tra loro vadano a confluire su una stessa persona. Ed è incredibile come questa persona abbia appena 22 anni e possa regalarci ancora tante altre perle. Dalla Nuova Zelanda con furore, Steven Adams.