16 Maggio 1976: una “Scheggia” e una salvezza per l’ultimo atto della Lazio di Maestrelli
Reso famoso dall’incipit di uno dei romanzi più celebri della letteratura italiana, il lago di Como il 16 maggio 1976 fu l’ultima ambientazione di una storia di sport bella e struggente: quella della Lazio di Tommaso Maestrelli. Aperta dal ritorno in serie A nel 1972, proseguita l’anno dopo con il sogno interrotto dello scudetto a un minuto dal termine dell’ultima giornata e culminata con l’apoteosi tricolore del 1974, volse all’improvviso verso il dramma nella Pasqua della stagione successiva: a Bologna, finita la partita, Maestrelli accusò un malore. Inequivocabili gli esami: tumore al fegato. Uno shock per la squadra, che sbandò e chiuse al quarto posto, e per la società, che in estate cedette tre pilastri di quella formazione – Nanni (Bologna), Oddi e Frustalupi (Cesena) – anche per volere del nuovo allenatore: Giulio Corsini. Tecnico emergente e preparato – aveva salvato una Sampdoria ripescata in serie A all’ultimo momento e fu uno dei primi a introdurre la corsa continua durante la preparazione precampionato – ma con un approccio psicologico rigido e tutto d’un pezzo, diametralmente opposto a quello comprensivo e paziente di Maestrelli, con quel gruppo di giocatori che in ritiro spegneva i lampioni del vialetto dell’albergo a colpi di pistola e che nelle cinque ore di viaggio delle trasferte di Torino, per scherzare, le puntava alla testa dell’autista del bus affinché si schiodasse dagli 80 km/h.
Diversi caratteri, diversi metodi di lavoro, diversi anche i risultati. A fine novembre, Lazio in zona retrocessione e spogliatoio-polveriera. “Con Corsini il feeling non era quello che avevamo con Maestrelli perché noi eravamo abituati a lui e non era facile adattarsi a un altro allenatore” commenta Roberto Badiani, soprannominato “Scheggia” per la sua velocità, oggi tecnico delle giovanili dell’Aglianese (dove ha iniziato ad allenare Massimiliano Allegri) e ieri mediano di spinta deputato al controllo delle mezzepunte avversarie e unico acquisto della Lazio nell’estate del 1975. A volerlo fu proprio Maestrelli. “Non lo conoscevo. Quando giocavo in B col Livorno, era il ’71, mi vide e disse: ‘Forse un giorno ti prenderò…’. Poi la Lazio vinse lo scudetto e mi chiamò: ‘Ci vuoi venire da me? Questi hanno vinto lo scudetto, bisogna tu fai la panchina, però ti conosco, sei sempre pronto, non mi fai polemica, alla prima occasione ti metto dentro’”. Detto fatto. Una volta in formazione, non ne uscì più. E anche da lui ripartì Maestrelli quando, a sorpresa, il 2 dicembre 1975, ritornò sulla panchina della Lazio. “Papà accettò solo perché la squadra era in cattive acque. Altrimenti non avrebbe mai ricominciato ad allenare. Anche se si era ripreso dalla malattia, i medici si erano raccomandati che cambiasse stile di vita e che si riposasse perché non poteva più sostenere certi ritmi” racconta il figlio Massimo.
Nonostante la buona volontà, Maestrelli non era quello di sempre. “Noi all’inizio si diceva: ‘Ce l’ha fatta! Ce l’ha fatta!’” ricorda Badiani “ma si vedeva che allenava con sofferenza”. “Inconsciamente, ognuno di noi dava qualcosa in più perché comunque eravamo attaccati a questa straordinaria persona” dice Renzo Garlaschelli, funambolica ala destra e quell’anno trascinatore con sette reti “però le giornate passavano, la situazione non migliorava perché i risultati stentavano e la paura di non farcela aumentava”. Quella Lazio non era da scudetto, ma nemmeno da lotta per non retrocedere. E non è sempre facile rinunciare all’abito da sera per la tuta da lavoro. Volato definitivamente Chinaglia negli Stati Uniti, i biancocelesti si giocarono la salvezza nello scontro diretto di Como, all’ultima giornata, consapevoli comunque che avrebbero dovuto aspettare i risultati di Sampdoria, Verona e Ascoli. Dallo scudetto al rischio della serie B in due anni e in un clima di prevalente abbandono perché quel 16 maggio 1976 occhi e orecchie erano tutti per il Torino, che stava per celebrare il primo (e finora unico) scudetto dopo Superga.
E al 17’ il lago di Como fu profondo come la Fossa delle Marianne. Grazie a Pozzato e Correnti la squadra di Osvaldo Bagnoli (campione d’Italia con il Verona nel 1985) era avanti 2-0.
“La nostra fortuna fu Bruno Giordano: un talento. Lo chiamavano ‘il brasiliano’, aveva carattere e sul piano tecnico era al livello di Chinaglia se non superiore. Noi eravamo frastornati e il suo gol ci svegliò” rammenta Badiani ripensando all’1-2 del diciannovenne trasteverino e alla lucidità durante l’intervallo di Maestrelli, quel giorno in panchina con 39° di febbre. “Fu straordinario. Noi in quel momento eravamo retrocessi perché l’Ascoli stava vincendo in casa della Roma, ma lui invece di strillare ci incoraggiò con parole semplici: ‘Forza ragazzi che ce la fate!’. E poi si affidò alla vecchia guardia”. Pulici, Martini, Wilson, Garlaschelli, D’Amico e Re Cecconi, che a inizio ripresa riportò a galla i compagni. “Dette un paio di urli, prese di forza un pallone, andò via in slalom, io intanto ero partito sulla sinistra…” prosegue il centrocampista toscano mentre rivede il pallone giungergli sul destro, la testa che si alza, davanti soltanto Rigamonti, il portiere avversario. “…entrai dentro l’area, calciai al momento giusto, d’esterno, mirando al primo palo, e poi non capii più nulla”. 2-2, Lazio in quel momento salva, salti e abbracci. Che però al fischio finale lasciarono spazio a un silenzio gelido. Verona e Samp l’avevano scampata, ma l’Ascoli? Faceva 1-1 e all’Olimpico si giocava ancora. Felice Pulici ha ancora davanti gli occhi quei momenti. “Eravamo tutti lì, addosso alla panchina, ad ascoltare la radio e aspettare la fine a Roma”. Forse i giallorossi abbandonarono il tradizionale campanilismo, forse ignoravano che l’Ascoli dovesse vincere per mandare in B l’altra parte della Capitale, o forse più semplicemente i marchigiani non ebbero le forze per il 2-1. Non lo sapremo mai. Fatto sta che, per una miglior differenza reti, la Lazio rimase in serie-A per la gioia dei cinquemila tifosi saliti al “Sinigallia”.
“Papà era stravolto” dice Massimo Maestrelli “aveva dato tutto se stesso per quel risultato, che per lui era più importante anche dello scudetto perché mai avrebbe sopportato la Lazio in B”. Sintetico Garlaschelli: “Fu una liberazione!”. “Nello spogliatoio ci sfogammo con gavettoni e bottiglie di spumante, Maestrelli mi abbracciò, fu una cosa stupenda” conclude Badiani, che ha una spiegazione precisa per il gesto che lo rese protagonista dell’ultimo atto di una storia rimasta nella memoria anche dopo quarant’anni. “Io ho fatto pochi gol (5 in 182 partite, ndg), ma importanti e se ripenso anche a come colsi quel pallone, al rimbalzo che ebbe, credo che il destino o qualcuno abbia voluto che ripagassi Maestrelli per la fiducia che aveva avuto nei miei confronti”.
E mentre lo dice, il volto si arrossa, la voce s’incrina e gli occhi si bagnano. Sipario.
FOTO: www.laziowiki.it