Che non sia un periodo roseo per Garbine Muguruza lo si è capito da un pezzo. La tennista spagnola, attualmente numero 6 al mondo, pochi giorni fa si è ritirata a Miami durante il match di quarto turno. Un ritiro dovuto a un malessere imprecisato, del quale ha potuto giovare Caroline Wozniacki, che si era però comunque già aggiudicata il primo set al tie-break. Ma già nei match precedenti l’iberica aveva mostrato una condizione fisica e mentale precaria, riuscendo ad imporsi a stento su tenniste oggettivamente più deboli come la Zhang e la McHale. E soprattutto nell’incontro con l’americana è emerso tutto il suo nervosismo, quando durante il coaching in campo si é rivolta in malo modo al suo allenatore, Sam Sumyk, al punto che lui le ha risposto con un lapidario: “Non ti permettere mai più di dirmi di chiudere quella ca… di bocca”.
Una frase che è stata udita in mondovisione, visto che il regolamento parla chiaro: una tennista può avvalersi una sola volta a set dell’intervento del coach, a patto che quest’ultimo venga microfonato e la conversazione possa essere ascoltata in diretta. Dopo la sfuriata l’allenatore francese ha avuto l’accortezza di spegnere il microfono, visto che la Muguruza si era accorta di avergli mancato di rispetto e, visibilmente dispiaciuta, era andata nel pallone.
E del resto non è la prima volta che si assiste ad una situazione simile: già tra il febbraio e il marzo 2016 l’iberica per due volte si era resa protagonista di battibecchi col suo allenatore durante il coaching in campo, uscendosene con frasi del tipo “Tu pensi che combatterò? Non voglio nemmeno giocare!” o “Non ho intenzione di morire per la palla!”. Frasi anch’esse ascoltate in diretta dai telespettatori, sintomo sì di poca maturità, ma anche giustificabili dalla frustrazione dovuta alle fasi complicate di un match. E al termine di questi incontri, alle domande dei giornalisti su quanto accaduto la spagnola ha sempre voluto ribadire la solidità del rapporto con Sumyk, spiegando che le sue particolari reazioni erano solo dovute alla concitazione nelle fasi calde del match.
Eppure l’episodio ha fatto nuovamente sorgere alcune domande: è giusto l’utilizzo del microfono in questi frangenti? E in generale, è realmente utile al tennis il coaching in campo? Oppure andrebbe abolito?
Quella del coaching in campo è una pratica introdotta nel 2009, solo in campo femminile: durante il cambio campo o tra un set e l’altro si venivano a creare degli intervalli morti, che rischiavano di allontanare il telespettatore medio; per questo la WTA decise di introdurre l’intervento del coach in campo con l’uso del microfono, cosicché non solo le giocatrici potessero ottenere un supporto tattico o emotivo, ma anche gli spettatori avessero un motivo in più per restare incollati alla TV, incuriositi dalle parole dei vari allenatori. Da un lato si miglioravano gli aspetti del gioco, dall’altro si aumentava il livello di “spettacolarizzazione”, così da catturare l’attenzione del pubblico.
Gran parte delle giocatrici si era detta d’accordo con questa iniziativa e negli anni l’utilizzo del coaching in campo è andato via via aumentando. Del resto, in questo modo si ovviava ai continui segnali criptati tra le tenniste e il loro entourage – pratica in teoria vietata -, che rasentavano il livello dei segni della Briscola. Eppure negli anni non sono mancate le voci contrarie all’intervento diretto del coach: Chris Evert e Boris Becker in primis si sono detti sfavorevoli, sottolineando come il tennis sia uno sport puramente individualista, dove da sempre occorre fare affidamento solo su se stessi.
D’altronde, per come è attualmente concepito, il coaching in campo presenta delle evidenti incongruenze. Anzitutto, è una pratica non ammessa in campo maschile, il che non solo crea una disparità, ma non argina il problema dei suggerimenti fuoricampo – Ion Tiriac, manager di Becker, che dava consigli muovendo i baffi ha fatto la storia –.
Inoltre, anche in campo femminile non è consentito l’intervento dell’allenatore nei tornei ITF, come nei Grand Slam. Il che è parecchio insensato, poiché una giocatrice, abituata ai consigli del coach, se ne ritrova privata proprio durante i tornei più importanti della sua carriera. Ma del resto, si sa che i rapporti tra WTA e ITF siano tutt’altro che idilliaci.
Per giunta, resta il problema dei microfoni in campo: è giusto che il confronto tra il coach e la sua giocatrice, con tanto di consigli tattici o suggerimenti puramente psicologici, sia alla mercè del grande pubblico? Non si rischia solo di assistere a inutili siparietti?
Al momento, la WTA non sembra prendere in considerazione di abolire il coaching in campo né di apportarne delle modifiche. Anche perché, malgrado i limiti, in alcuni casi il suo utilizzo è stato determinante nel rendimento di alcune giocatrici. Al contrario, secondo alcune indiscrezioni già dal 2018 potrebbe essere introdotto anche in campo maschile. Il che da un lato potrebbe aiutare tennisti storicamente instabili nell’aspetto mentale – Fognini, Kyrgios, Paire..la lista è lunghissima -, ma dall’altro potrebbe generare scene a dir poco patetiche : vi immaginate un cambio campo di Fognini, sotto nel punteggio, che si sfoga col proprio coach, il tutto con un microfono lì a portata di mano? Le parolacce si sprecherebbero.
Per ora è solo un’ipotesi tutt’altro che confermata, staremo a vedere. Solo fra qualche anno potremo davvero sapere se il coaching in campo è la nuova frontiera del tennis, meno individualistica e sempre più d’intrattenimento, oppure se ci sarà un salto nel passato, un ritorno alle origini e al puro solipsismo.