Il ciclismo secondo Fabio Genovesi
Il ciclismo è da sempre uno degli sport più popolari dello Stivale perché nasce da lontano e di pari passo viaggia con la nostra storia quale elemento identificativo. E’ uno sport trasversale, che appassiona grandi masse perché è l’unico che viene a trovarti, casa per casa, senza chiederti nulla in cambio e come tale percorre chilometri su chilometri abbracciandoti e regalandoti, al suo passaggio, quel pizzico di sana gioia che fa bene al cuore. La fatica e il sudore di chi va in bici ci fa ancor di più apprezzare lo sforzo immane che questi atleti compiono per regalarci le emozioni che hanno fatto la storia di questo Paese. Massima espressione nazional-popolare è di sicuro il Giro d’italia che da sempre immobilizza platee di appassionati intenti a condividere le tre settimane di corsa tra una volata e un tappone, tra una polemica e una fuga incerta, tra la gloria eterna della maglia rosa e la resa estrema. Cresciuto a pane ciclismo è di certo lo scrittore Fabio Genovesi, che anche quest’anno ha seguito la corsa Rosa in veste di commentatore Rai e, con stile inconfondibile e passione viscerale, ci ha regalato pagine di storia e cartoline emozionanti nelle quali è emerso tutto l’ardore poetico per questo sport così amato e popolare. Un amore genetico che lo ha spinto a scrivere il bellissimo Cadrò sognando di volare, in cui rivivono le gesta immortali e romanzate del Pirata, unico e romantico campione in grado di alzare l’asticella e il confine tra il possibile e l’impossibile, tra ciò che vorremmo fare e quello che si può fare perché questo è il lascito che Marco Pantani ha donato al ciclismo e a tutti noi, la voglia di osare sognando di volare. Da anni collaboratore al Corriere della Sera, Repubblica e Vanity Fair lo scrittore di Forte dei Marmi è entrato nelle case degli italiani con fare gentile e una sensibile vena comunicativa e divulgativa che, unite alle indiscusse doti di narratore, hanno regalato una ventata di aria fresca e un valore aggiunto sensibile al movimento mediatico delle due ruote. Lo abbiamo raggiunto per rivivere la sua recente esperienza nella Corsa Rosa con uno sguardo proiettato allo stato attuale di salute del ciclismo azzurro.
Fabio buongiorno, partiamo ovviamente dal recente Giro d’Italia. Una corsa che nonostante le mille difficoltà è riuscita ad arrivare a Milano. E’ stata un’esperienza per te diversa rispetto all’anno scorso?
Completamente diversa innanzitutto perché per la prima volta il Giro si è svolto dopo il Tour che ho seguito da inviato, son rientrato dalla Francia mi sono fermato cinque giorni e son ripartito per la Sicilia. Un giro senz’altro diverso per me perché quest’anno sono riuscito a ritagliarmi degli spazi che erano più nelle mie corde e, ovviamente, mi sentivo più a casa. Avendo grandi tecnici al mio fianco, da Bugno a Garzelli e Bennati, sono riuscito a coniugare la mia grande passione per il ciclismo, per il racconto e per la scrittura trovando una giusta, e più mirata, dimensione dopo l’apprendistato dell’anno scorso.
Un Giro che per un pelo è scampato alla seconda veemente ondata del Covid. Un segno del destino e una boccata di ossigeno per tutti i tifosi appassionati delle due ruote e dello sport in generale?
Assolutamente si, tornando dalla Francia a fine settembre la situazione era molto complessa per loro, meno per noi, ma come abbiamo visto era solo questione di tempo. Siam partiti da Palermo tra l’entusiasmo della gente che aveva voglia di normalità ed è stato bellissimo vedere i tifosi che compostamente e rispettosamente incitavano gli atleti per la gioia di esserci. Pensiamo anche che tutto il folklore legato alla Carovana pubblicitaria del Giro quest’anno non c’è stato, ma il pubblico si è accontentato anche di quel rapido passaggio per sentirsi partecipe di una grande festa. Al sud lo si è percepito molto, poi più si andava avanti e più la tensione cominciava lentamente a serpeggiare, ma alla fine si è arrivati a Milano è un plauso speciale va dato alla splendida organizzazione della RCS capitanata dal grandissimo Mauro Vegni.
Questo grande amore per il ciclismo. Da dove è nato, cosa lo ha alimentato?
Sono nato in una famiglia a dir poco tifosa sfegatata per questo sport, nessuno seguiva il calcio perché non c’era tempo, eravamo troppo assorbiti a vedere le gare di ciclismo in tv. Il 1982 si è festeggiato in famiglia non per il Mondiale spagnolo, ma per l’oro di Saronni a Goodwoode questo ti dà il termometro di che aria si respirasse a casa. Poi crescendo me ne sono innamorato anche da un punto di vista storico, il ciclismo antico, quello pioneristico dei primi del ‘900, che è meno battuto e antesignano dei Coppi e Bartali, mi affascina tantissimo perché è uno specchio sintomatico del clima che si respirava nel Paese quegli anni. Sono malato perso di questo sport, lo ammetto.
Il ciclismo ha ciclicamente vissuto di grandi rivalità, una delle ultime ha riguardato proprio Bugno e Chiappucci tra fine novanta e inizio duemila. Quanto ci mancano oggi queste sane beghe interne tra grandi campioni?
Si indubbiamente questo sport si è nutrito da sempre di queste grandi diatribe tre campionissimi che hanno fatto molto bene alla sua popolarità. Sono necessarie alla salute di uno sport in generale, mentre oggi stiamo assistendo al paradosso opposto: un eccesso di fair play rischia di privarlo di quella sana cattiveria agonistica che è uno dei suoi motori pulsanti. Oggi si fa più fatica a trovare temi e polemiche degne degli anni in cui i Saronni e i Moser non esitavano a dirsele di santa ragione, perchè è tutto più umanamente ragionato e dominato dalla paura di sbagliare o di andare fuori giri. Anche questo uno specchio dei tempi che corrono in cui la performance è troppo studiata a controllata in ogni minimo dettaglio a discapito dell’imprevedibilità.
L’imprevedibilità non può farmi non pensare al Pirata a cui hai dedicato il tuo ultimo romanzo. Chi era per te Marco Pantani? Chi può avergli voluto così male?
Per me è semplicemente il più grande di sempre, ma non per i risultati bensì per il modo di intendere il ciclismo. Nel romanzo scrivo che il campione in uno sport è quello che riesce a portarlo avanti di vent’anni, col Pirata avviene esattamente il contrario. Lui con le sue gesta riporta le lancette indietro nel tempo regalandoci le stesse emozioni del un ciclismo di una volta e riuscendo a far riappassionare le masse. Non solo le vittorie, ma anche le sconfitte, le azioni a volte trionfali e a volte velleitarie, le crisi profonde e le repentine risalite, chi è mai riuscito a regalarci tutto ciò? Tanto successo genera ovviamente tanta invidia e anche all’interno del mondo del ciclismo c’è chi ha esultato dopo Campiglio, poi la sua fragile e profonda umanità ferita ha fatto il resto e molti ne hanno approfittato trascinandolo in un baratro dal quale non è emerso più. La verità non la sapremo mai, ma quel che è certo che da quando un’ingiustizia ha fatto sparire Pantani il ciclismo non ha mai più riavuto l’audience e l’interesse di quegli anni.
Torniamo al Giro. La tappa di Morbegno è stato un brutto episodio da dimenticare? Sintomatico sui rapporti di forza all’interno del mondo delle due ruote?
Indubbiamente è stato un episodio deprecabile e capisco perfettamente il dolore espresso dall’organizzazione che ha fatto di tutto per portare il giro a Milano. Era di sicuro una tappa troppa lunga piazzata li in mezzo ai tapponi decisivi, poi il maltempo ha fatto il resto, ma bisognava discuterne prima e nelle sedi competenti e a questo aggiungerei che all’interno del gruppo mancavano i cosiddetti uomini forti che avrebbero di sicuro fatto rispettare i protocolli. A loro parziale giustificazione posso solo dire che correre in ottobre con un clima diverso e dominato dalla paura del Covid possa aver influito su questa decisione tardiva e confusa, ma comunque offensiva nei confronti dei tifosi.
Mamma Rai che ti ha dato questa grande opportunità. Un’azienda che crede nel ciclismo e piena di professionalità esemplari? Hanno dato a mio avviso un esempio di grande giornalismo in un momento di sicuro non facile.
Si, sono strato davvero bene all’interno di questo team fantastico, quando l’anno scorso mi hanno proposto di seguire il Giro in prima linea per me è stato come seguire i mondiali di calcio in panchina. Dirette lunghissime e curate nei minimi dettagli, un team invisibile di persone che smonta e rimonta ogni giorno strutture e postazioni mentre noi percorriamo in lungo e in largo lo stivale, un lavoro immane fatto da professionisti in ogni settore. Il ciclismo è uno sport giornalisticamente difficile e dispendioso da seguire legato a continue variabili sia climatiche che logistiche e la Rai in questo si dimostra da sempre un’eccellenza e un vanto degna del miglior servizio pubblico.
Si attende, si rimane delusi, poi all’improvviso parte una salita e accade qualcosa, ci si emoziona, si tifa, a volte si soffre o si gioisce e il cerchio si chiude, pronto a ricominciare ciclicamente il giorno dopo. E’ questa la magia che solo questo sport riesce a regalare.
E’ una sintesi perfetta per descrivere la bellezza di questo mondo chiamato ciclismo. E’ un viaggio meraviglioso, un po’ come la vita, tra rapide esaltazioni, fasi di stanca, ma che altro non sono che il preludio a qualcosa che avverrà di lì a poco, chi è appassionato vive tutte queste sensazioni facendole proprie, chi non lo è non riesce nemmeno a percepirle. E’un amore con le sue fasi di corteggiamento, a volte di rifiuto, ma sempre con l’attesa e la speranza di gustarlo in tutto il suo divenire, ed è talmente viscerale questa passione che rende piacevole anche il dopo, come dimostra il successo del Processo alla Tappa condotto magistralmente da Alessandra De Stefano, in cui già si pregusta quello che accadrà domani. Quest’anno la Rai si è superata con lo studio virtuale che ci ha permesso di vivere a caldo le emozioni dei protagonisti in totale sicurezza, chapeau!
Il ciclismo azzurro. Lo squalo ha lottato coi denti ma di più non poteva, ottimo Masnada e superlativo Ganna. Stato di salute in generale? C’è da preoccuparsi o da stare allegri?
Innanzitutto su Nibali c’è da dire che ha pesato tanto questa stagione balorda che non gli ha permesso di macinare i suoi soliti chilometri per cui non è mai giunto alla forma ottimale. Credo ancora in lui, nonostante le trentasei primavere, e son convinto che saprà ancora regalarci qualcosa di bello. Masnada ha corso sempre al fianco di Almeida, mentre Ganna ha avuto via libera solo dopo l’incidente di Thomas, e questo mi preoccupa di più. Non avendo purtroppo squadre World-Tour in Italia i nostri migliori atleti vengono ingaggiati da queste squadrone corazzate e spesso finiscono per fare da gregari ai supercampioni più blasonati. Questa gabbia di fatto li costringe a limitarne l’azione e a non fargli esprimere a pieno titolo le loro potenzialità, e ahimè il tutto si riflette sull’intero movimento nazionale. Il ciclismo lo definisco uno sport latente pronto ad infiammarsi appena sboccia un campione: spero che Ganna, che ha ampi margini di crescita, possa diventare l’uomo simbolo di questa rinascita, l’Indurain che non abbiamo mai avuto adatto anche per corse a tappe di tre settimane.
Chiudiamo con un messaggio ecologico rivolto a tutti, stiamo andando incontro ad inevitabili ulteriori restrizioni mentre i bonus bici e monopattini vanno a ruba. Andiamo tutti in bici, e andiamoci in sicurezza?
La bici oggi è l’unica alternativa possibile e faccio fatica a capire come questo messaggio ancora non faccia presa sulla gente. Fa bene alla salute, fa dimagrire, risparmi la benzina eviti il parcheggio e l’assembramento e in Italia abbiamo anche la fortuna del clima mite per buona parte dell’anno. E’ una questione di civiltà, il Covid ci sta portando per mano a scoprire che non sempre tutto è possibile e la bicicletta è il mezzo migliore per riappropriarci dei nostri spazi a contatto con la natura. Sul discorso sicurezza credo che bisognerebbe uscire dalla logica dell’antagonismo tra ciclisti e automobilisti e spostare il discorso sulle persone, perché tutti i ciclisti possono essere automobilisti e viceversa. La mentalità andrebbe cambiata, vedere alle strisce pedonali le auto che a stento si fermano facendoti attraversare come se fosse un favore la dice lunga sul modo profondamente sbagliato che hanno gli automobilisti di intendere la strada. Come in tutte le questioni cruciali del nostro Paese è un problema di cultura e di rispetto delle regole, cose in cui siamo francamente latitanti da troppo tempo.