Il ciclismo è uno sport che vive sospeso sul filo tra razionalità ed anarchia. Caratterizzato da gerarchie liquide e variabili, esso è più di ogni altro sport declinabile, descrivibile e soprattutto interpretabile sulla base dei convincimenti personali dei suoi protagonisti, sia che si tratti di singoli corridori sia che si guardi alla struttura delle squadre in campo. Nel ciclismo, la subordinazione e la consequenzialità sono concetti relativi: competizioni diverse vanno interpretate alla luce di approcci adatti al contesto, alla planimetria, alle intenzioni presunte degli avversari, alle potenziali insidie. La grande dicotomia su cui si fonda il ciclismo contemporaneo è quella tra estro e metodo. Può la razionalità interpretativa di una squadra essere finalizzata a un’azione inattesa, sorprendente, addirittura anarchica, o, al contrario, venire costruita sulla base di un metodo organico, omnicomprensivo e scientificamente calcolato? Nelle ultime stagioni si sta assistendo a diverse conferme tanto del primo quanto del secondo principio, e la stagione 2016 non fa eccezione. I due grandi giri del 2016, infatti, hanno offerto argomenti in favore alla tesi del “razionalismo anarchico” ma, al tempo stesso, ribadito la validità della seconda posizione.
Un metodo rigoroso, scevro di fantasie e azioni fuori dal coro, non avrebbe mai consentito all’Astana di ribaltare le sorti del Giro d’Italia 2016, sfatare le critiche ingenerose rivolte a Vincenzo Nibali e consentire al corridore messinese di fare sua la “Corsa Rosa” al termine di due tappe, la diciannovesima e la ventesima, affrontate dal team kazako con lo spirito della battaglia in campo aperto, della trappola a lungo raggio. La sagacia di Beppe Martinelli ha partorito la strategia dominante che ha dato vita ai due giorni che hanno sconvolto il Giro, muovendo in maniera organizzata gli apripista che hanno preparato le azioni implacabili, e inaspettate, di Nibali sul Risoul, nella discesa del Colle dell’Agnello e a Sant’Anna di Vinadio.
Molto diversa dalla scelta dell’Astana è invece quella che caratterizza l’azione del Team Sky sulle strade del Tour de France, e che dal 2012 garantisce alla squadra britannica di David Brailsford un controllo completo sugli sviluppi della corsa, interrotto solo temporaneamente dall’estro e dalla genialità dell’incontenibile Nibali del 2014. Il Team Sky è la dimostrazione ciclistica delle qualità che hanno reso la Gran Bretagna grande e longeva: metodo, organizzazione, compattezza, applicazione ragionata della tecnica, chiarezza nell’individuazione degli obiettivi, determinazione assoluta nel loro perseguimento. La preparazione agli scatti di Chris Froome, in questa stagione capace in ogni caso di azioni decisamente più asimmetriche rispetto al passato, è sempre stata garantita da un lavoro di sfinimento del gruppo degli avversari portato avanti per mezzo di un lavoro progressivo, implacabile e coordinato volto all’imposizione alla corsa dei ritmi elevati voluti dagli uomini Sky. Da anni, il Team Sky è la formazione che riesce a portare il maggior numero di corridori all’imbocco di tutte le salite, e che nella stragrande maggioranza dei casi riesce a prendere il controllo della corsa in maniera tale da cristallizzarla secondo le volontà ad esso più consone.
In questo 2016, l’uomo maggiormente determinante per il mantenimento della maglia gialla di Chris Froome è risultato finora Wouter Poels, che dal Mont Ventoux al Col du Grand Colombier si è distinto come principale scudiero del leader del Team Sky e ha imposto a ripetizione ritmi insostenibili per tutti coloro che, tra gli avversari di Froome, avessero voluto provare azioni di contrasto alla squadra britannica o attacchi a sorpresa. Non ha battuto ciglio, il 29enne olandese, nemmeno di fronte al tentativo di allungo di Valverde e Aru sul Grand Colombier: al contrario, ha proseguito un’inesorabile progressione, continuato sui ritmi prefissati e ricucito lo strappo. Metodo, chiarezza, determinazione. Come volevasi dimostrare. Poels e ciclisti di fattura simile, coriacei pedalatori adatti a ogni tracciato, rappresentano una categoria utile a esaltare le connotazioni del ciclismo come sport di squadra. In ciclisti come Poels, la classe e il talento si amalgamano con lo spirito di corpo e la dedizione alla causa del gregario: e dato che nel ciclismo le gerarchie sono esclusivamente tattiche, non riflettendo connotazioni di alcun altro tipo, è bene sottolineare la positività di doti come la capacità di sacrificio e la visione di squadra, nonché l’abilità all’adattamento ai diversi tipi di competizione. Nelle gare di un giorno, infatti, Poels è una delle principali punte di lancia del Team Sky, avendo conquistato in questo 2016 la prestigiosissima Liegi-Bastogne-Liegi, mentre al Tour, non ambendo a particolari obiettivi di classifica, la sua dedizione è totale nei confronti degli obiettivi della squadra. Il ciclismo moderno è il regno dei gradi intermedi, dei luogotenenti meticolosi e degli omologhi estrosi. Poels è per Froome ciò che al Giro Michele Scarponi è stato per Nibali: un fidatissimo supporto, un pesce pilota ideale, un atleta duttile e capace di adattarsi alla strategia pianificata. Gli attacchi di Scarponi sulle montagne finali del Giro 2016 e le azioni di avanscoperta da lui condotte in quello 2013 hanno rappresentato il retroterra indispensabile al balzo rosa dello “Squalo dello Stretto”. Senza pedine tanto determinanti, i fuoriclasse avrebbero incontrato difficoltà molto più aspre nel conseguimento dei loro successi. Il luogotenente si carica di responsabilità, mette la fatica e la faccia in prima persona nelle sue azioni e rende possibile il dispiegarsi della tattica di squadra. Nel mezzo delle due concezioni del ciclismo moderno, a fungere da filo rosso di collegamento, vi sono gli indispensabili luogotenenti. Nell’oscillazione continua tra metodo e anarchia, sono proprio loro a indirizzare il pendolo nel verso più consono alla struttura della loro squadra.