“Che” Guevara contro la Neuropatia. L’ultima utopia del “Maestro” Tabarez, ct dall’indole rivoluzionaria

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“Che” Guevara contro la Neuropatia. L’ultima utopia del “Maestro” Tabarez, ct dall’indole rivoluzionaria

“Bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza” teorizzò ‘Che’ Guevara e Oscar Washington Tabarez, estimatore del rivoluzionario argentino al punto da chiamare Tania (come “Tania la guerrigliera”, spia e collaboratrice del “Che”) una delle sue quattro figlie, ha incarnato questo motto dall’estate scorsa, quando ha dichiarato alla stampa di soffrire di neuropatia cronica. Una malattia che indebolisce il sistema motorio e che lo obbliga, in alcune circostanze, a dirigere gli allenamenti della nazionale dell’Uruguay a bordo di una macchina elettrica e a camminare con l’ausilio di due bastoni. Non è la sindrome di Guillain Barré – come erroneamente riportato in un primo momento e come poi smentito dal diretto interessato – ma si tratta comunque di un problema fisico di seria entità, curabile esclusivamente con la fisioterapia, e più che sufficiente perché un uomo di sessantanove anni si ritiri a vita privata dopo una carriera di prestigio. Un altro uomo però. Non di certo ‘Il Maestro’, che fin dal primo momento è stato esplicito sulle sue intenzioni – «Resterò alla guida della Nazionale finché le forze me lo permetteranno e finché i giocatori mi seguiranno» – tenendo così fede al primo principio della massima guevarista, campeggiante anche su una delle pareti della sua abitazione: la durezza. Con se stessi e col proprio lavoro di responsabile della nazionale di un Paese, l’Uruguay, dalle dimensioni inversamente proporzionali alla passione per il calcio, che sovente trasfigura in religione. Dove Tabarez è visto come una sorta di ‘Profeta’. Non tanto per una declinazione iperbolica del suo soprannome – maestro di elementari Tabarez lo è stato davvero, da giovane, dopo la laurea in Magistero all’università di Montevideo – quanto perché, da quando è ritornato sulla panchina della Celeste (fine 2006), ne ha rilanciato l’immagine nel continente desapareçidovittoria della Copa América del 2011 dopo sedici anni di digiuno, della quale è stato unanimemente riconosciuto come l’artefice principale e con la quale l’Uruguay è ritornata la nazionale più titolata nel globo – e nel mondo: quarto posto a Sudafrica 2010, ottavi di finale in Brasile nel 2014 dopo aver eliminato la favorita Italia nel girone e quarto posto (sconfitta ai rigori) nella Confederations Cup del 2013.

E ora che l’Uruguay è secondo nel girone di qualificazione per il mondiale russo del 2018, Tabarez non vuole venir meno al proprio dovere. L’idea della resa nemmeno non lo sfiora. E non per ambizioni da martire o per la necessità di dimostrare al mondo una natura eroica bensì perché tanta abnegazione è il confine, sottile, tra la durezza e l’altro concetto della frase cara al rivoluzionario morto in terra boliviana: la tenerezza. Già perché oltre la frontiera della coerenza con se stessi e con un impegno preso con cinque milioni di tifosi, si distende la prateria dei nobili sentimenti: l’amore per la propria gente, il desiderio di renderla felice come nel 2010 e di riportarla in piazza, a festeggiare, come nel 2011, quando Tabarez fu oltretutto premiato come miglior commissario tecnico dell’anno dalla IFFHS (Federazione Internazionale di Storia e Statistica del Calcio).

È un pasionario, Oscar Washington Tabarez, dal 12 novembre primatista nella storia mondiale del calcio per il maggior numero di partite alla guida di una nazionale: 168, una in più di Herberger (Germania e Germania Ovest dal ’36 al ’64). Niente male per uno che, prima di cacciarlo in fretta dal Milan (11 giornate, stagione ’96-97), Berlusconi accolse con la consueta eleganza: «Tabarez? Chi è costui? Forse un cantante iscritto a Sanremo?». E come tutti i passionali, anche ‘Il Maestro’ sfodera meglio la sua tempra davanti alle difficoltà che potrebbero comprometterne il cammino. Che, nel suo caso, è un’idea: la riaffermazione dell’Uruguay fra i grandi del calcio mondiale, da raggiungere sognando quella coppa che alla Celeste manca dal 1950 e che al momento assomiglia all’utopia cara allo scrittore uruguagio Eduardo Galeano, in vita amico dello stesso Tabarez, cioè quella meta che ci fa muovere, che orienta le nostre azioni e che ci fa essere duri senza perdere la tenerezza. Hasta la victoria, ‘Maestro’.

Classe 1982, una laurea in "Giornalismo" all'università "La Sapienza" di Roma e un libro-inchiesta, "Atto di Dolore", sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, scritto grazie a più di una copertura, fra le quali quella di appassionato di sport: prima arbitro di calcio a undici, poi allenatore di calcio a cinque e podista amatoriale, infine giornalista. Identità che, insieme a quella di "curioso" di storie italiane avvolte dal mistero, quando è davanti allo specchio lo portano a chiedere al suo interlocutore: ma tu, chi sei?

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