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Charles Leclerc, il giovane Re che ha ricucito i pezzi di un cuore rosso infranto
/Occhi di bosco, soldato del regno, profilo francese…/: parole e musica di Fabrizio De André, che noi adattiamo a una storia in cui il regno è quello di Maranello e il regno ha trovato già un giovane re, più che un principino, come il viso imberbe sembrerebbe suggerire.
Charles Leclerc, con le erre monegasche più arrotate di quelle di un parigino purosangue; con la sintassi italiana esibita con una fluidità e una proprietà di linguaggio che fanno invidia, giornalisti compresi, a molti nostri connazionali, che quando la Ferrari numero sedici ha tagliato per prima il traguardo di Monza, sono tornati a essere compatrioti. La sensazione è che la Ferrari, condotta dal furetto che ogni nonna del Belpaese destinerebbe alla nipote prediletta, ora unisca gli italiani perlomeno nella misura in cui riusciva a farlo all’epoca di Michael Schumacher, ma forse in misura maggiore, viste le proporzioni tra le rispettive soddisfazioni: lì erano titoli mondiali a raffica, qua per ora vagiti di competitività, incarnati da un virgulto del volante che ha già evidenziato una caratteristica rara. Perché ci sono i campioni, all’interno dei quali vive protetta e rara la categoria dei fuoriclasse, quelli che nascono raramente e la cui parabola sportiva segna un’epoca intera; ma all’apice di questa piramide del talento e del diritto alla gloria stanno gli esemplari più rari di tutti: i predestinati, quelli le cui doti cominciano a brillare poco dopo il primo vagito e il cui tracciato (in tutti i sensi, stavolta) di vita si presume già scandito dai traguardi, fisici e simbolici, che prima o poi, ma in genere senza fare anticamera alcuna, che sono destinati a tagliare, con tutta l’eleganza che ci può essere in una naturale, fisiologica, involontaria irriverenza.
Charles Leclerc ha vinto i suoi primi due gran premi, di seguito, a Spa – Francorchamps e a Monza: anche in questo c’è una evidente simbologia, dovuta non solo e non tanto al particolare che questa doppietta iniziare, con la tuta del Cavallino, aveva scandito le prime bandiere a scacchi di Schumacher nel 1996, quanto al fatto che si tratta di due cattedrali dell’automobilismo di ogni tempo; due piste in nome delle quali generazioni intere di piloti sono grati al dio delle corse anche soltanto per aver consentito loro di percorrerne i tornanti.
I paragoni? Scontati, alcuni; come sempre, lasciano il tempo che trovano, pur rivelandosi azzeccati per quanto riguarda alcuni particolari: ad esempio, per quanto riguarda la performance sul giro secco, come non dare ragione a chi intravede la capacità quasi ipnotica di restare sospeso sul filo di una traiettoria che era propria del giovane Ayrton Senna? Volendo dire anche noi la nostra, per quanto riguarda gli accostamenti, ne tiriamo fuori uno ancora inedito, ossia quello con il piglio battagliero di Nigel Mansell, da quando quest’ultimo divenne il Leone d’Inghilterra. Poi, una suggestione, insopprimibile, ogni volta che vediamo Leclerc, minuto nell’abitacolo, coi lineamenti delicati, un istante prima di indossare la maschera bianca: un viso che potrebbe benissimo appartenere a uno chansonnier che si appresta a intonare una canzone struggente, in un fumoso locale parigino degli anni sessanta. La stessa, immediata impressione che provocava, salvo poi rivelarsi cannibalesco una volta che abbassava la visiera, il giovane Gilles Villeneuve. Sottovoce, ci perdonino o ci sorridano all’occorrenza gli dei del volante.
Disse una volta Niki Lauda, con la franchezza che gli era propria, una quindicina di anni fa, che “Queste macchine le può guidare anche una scimmia…”, riferendosi alle monoposto del ventunesimo secolo, con tutti i loro appigli elettronici e telematici. Paradossalmente, allora, se oggi un pilota si caratterizza per lo stile e riesce a brillare per il talento, probabilmente la sua caratura di campione è ancora più fulgida, rispetto a quelli delle epoche trascorse.
Perché piace a tutti in maniera così naturale, così immediata, facendo interessare non solo gli appassionati in senso stretto ma anche un pubblico molto più vasto e per la maggior parte poco interessato o distratto rispetto alla Formula Uno? Perché una sua gara la segue con attenzione anche chi sa a malapena misurare l’olio della propria utilitaria? Perché guida facendo emozionare, quello è un linguaggio universale, al di là della grammatica specifica di ogni disciplina sportiva.
In più, se ci concedete la licenza poco poetica, dietro il suo parlare forbito e la sua soavità di modi, anzi proprio in ragione di essi, si cela un grandissimo paraculo. Questo, ovviamente, è un merito ulteriore, come l’ennesimo decimo di secondo grattato via all’entrata del rettilineo del successo.
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