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Chapecoense 6 anni dopo: storia di un sogno rimasto in bianco e nero
Il 28 Novembre 2016 l’aereo con a bordo la squadra brasiliana della Chapecoense in viaggio verso la Colombia per la finale di Copa Sudamericana, si schianta al suolo portandosi via 71 persone e la quasi totalità della compagine calcistica. Una ferita ancora aperta che non possiamo dimenticare.
La semifinale con il San Lorenzo
La chiave è rappresentata dagli ultimi dieci minuti della semifinale di ritorno contro il San Lorenzo. Una, due, tre occasioni nitide, un paio di miracoli del portiere della Chapecoense e il palo che trema ancora. Quella porta è stregata. I minuti interminabili finiscono, l’arbitro fischia e l’Arena Condá è Rio nel primo giorno del carnevale. Twitter diventa la via più veloce per ringraziare Dio, perché è grazie a lui se una squadra che ha sempre ballato sul bordo scivoloso del dimenticatoio ora può mettersi in fila per la gloria, e la testa va a Medellín, perché se davvero è arrivato quel momento la città colombiana è il primo posto dove bisogna passare. São Paulo per la Bolivia e poi il volo finale per la Colombia.
La tragedia del Volo LaMia 2933
Ma alle 22 il comandante lancia l’allarme per alcuni problemi all’impianto elettrico e poco dopo è costretto a tentare un atterraggio di emergenza su una collina vicino Medellìn ma l’aereo si schianta nella notte. 71 morti e 6 sopravvissuti, tre sono calciatori della Chape. Una squadra annientata. Perché parliamoci chiaro, siamo così colpiti da questa tragedia perché a bordo c’era chi inseguiva il riscatto sportivo e se Bill Shankly non era un idiota dovremmo tutti essere più o meno consapevoli che il calcio tutto è meno che la cosa più importante tra le cose futili. E quindi piangiamo questi ragazzi, perché anche il più vigliacco degli essere umani in qualche misura accetta la morte ma non così, non mentre ci si va a giocare la vita, la vita vera. E quel Dio che i calciatori osannavano in lacrime dopo l’impresa gli ha voltato le spalle, perfido come un personaggio shakespeariano, lasciando il rimpianto come unica realtà tra le macerie.
L’impresa della Chapecoense
Che poi questa squadra brasiliana era una sorta di Carpi, con ventimila tifosi in più, arrivato in finale di Uefa. Nata nel 1973 non ha mai frequentato i salotti nobili del calcio verdeoro, salvo qualche vittoria nel campionato statale, e solo qualche anno fa giocava in Serie D. Poi la scalata al calcio che conta con l’approdo nel Brasileirao e la qualificazione per la Sudamericana. Percorso netto fino alla semifinale, e a quei dieci minuti che resteranno come un’ossessione. Perché le palle gol capitate a ripetizione al San Lorenzo sono sliding doors entrate nella storia dalla parte sbagliata e su un altro volo verso la Colombia avrebbero meritato di esserci i Cuervos di Boedo. I sopravvissuti inizialmente erano 7, e il settimo era il portiere Danilo, l’eroe di quella maledetta partita e uno degli ultimi ad arrendersi ieri, ma non ce l’ha fatta. A complicare tutto anche i maledetti social, dove i giocatori hanno postato tutto il postabile compreso un video sull’aereo a pochi minuti dal decollo, sorridenti ed emozionati.
L’ingiustizia che ha infranto un sogno
Ecco perché è troppo. Ecco perché non riusciamo a darci pace. Se poi si è tifosi il pensiero va al gioco, perché per chi ama una squadra il calcio è vita. E l’ingiustizia più grande è che quella finale non si è giocata mai e questi perdenti sono rimasti tali senza neanche averci provato. Il gesto onorevole dell’Atletico Nacional di chiedere l’assegnazione a tavolino della coppa alla squadra che non c’è più è forse una piccola ingiustizia, perché al destino è inutile ribellarsi e sarebbe bello raccontare la storia della squadra che avrebbe potuto vincere, cambiando la propria cultura sportiva per sempre, alla quale però qualche congiunzione astrale ha levato la possibilità di provarci. Proprio per questa ragione le grandi tragedie calcistiche assimilabili c’entrano ben poco con il caso della Chape. Il Grande Torino non è diventato grande dopo Superga così come il Manchester United che non riuscì a fermare quella corsa maledetta a Monaco di Baviera aveva dalla sua la gloria già prima che il disastro la tramutasse in leggenda. La Chapecoense no. Non era una grande squadra e non erano dei vincenti, senza dubbio. E se possibile resteranno scolpiti nelle anime di chi ama il futebol in maniera un pizzico più indelebile rispetto agli altri uomini perseguitati dal destino. La vita della maggior parte dei mortali è fatta di rinunce e sconfitte con qualche nota alta qua e là e della gloria eterna, se ci va bene, sentiamo una eco lontana arrivare da chissà dove.
Per questo siamo tutti la Chape. Perché in fondo, spesso, ce ne andiamo così, senza neanche il brivido di essercela giocata.