Cesare Prandelli: il coraggio di fermarsi e il tempo che non torna più

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Cesare Prandelli: il coraggio di fermarsi e il tempo che non torna più

“No, il tempo non torna più. E ieri non eri tu, oggi chi sei?” canta Fiorella Mannoia in uno dei suoi più famosi successi, Il tempo non torna più. Una domanda che con ogni probabilità si è fatto anche Cesare Prandelli in questi quattro mesi da allenatore della Fiorentina. Della sua Fiorentina. Dove era ritornato dopo dieci anni per l’amore nei confronti di una città e di una tifoseria in difficoltà: 8 punti in 7 giornate, un gioco inesistente e le ambizioni europee d’inizio stagione riposte nell’armadio con i primi venti d’autunno.

Si era presentato senza pretese – «Spero di dare tanto in questi mesi […] Non ho messo nessuna condizione e mi sono messo a disposizione – e con abnegazione: «Ho una doppia responsabilità, come allenatore e come tifoso». Ma tra le sue parole – «Sono tornato anche per riprendere un certo discorso. Al direttore Barone ho aggiunto: “Fra due o tre mesi mi chiamerete per firmare di nuovo”» – ardeva anche il sogno di un nuovo Umanesimo viola. Come nella sua prima esperienza, 2005-2010: due qualificazioni alla Champions League, una semifinale di Europa League e di Coppa Italia, la vittoria in casa della Juventus dopo vent’anni (3-2 in rimonta a cura di Gobbi, Papa Waigo e Osvaldo), la notte di “Anfield” (2-1 al Liverpool) e la carrozza che però ritorna zucca contro il Bayern Monaco e il “matrigno” Øvrebø. Poi l’Italia, un argento europeo (2012) e un Mondiale (Brasile 2014) nato male e finito peggio con l’eliminazione al primo turno. Critiche oceaniche, lui si dimette subito e da quel momento è come se le strofe della Mannoia regolassero la sua carriera. Perché “si sposta lontano, in un orizzonte più strano”. Prima turco (Galatasaray), poi spagnolo (Valencia), infine arabo (Al-Nasr). Il risultato però è sempre lo stesso: pochi mesi, poche soddisfazioni e tanta amarezza. La ricerca del rilancio trasformata in ciclica caduta da tre separazioni che lo aprono all’esistenziale dilemma se sia sempre all’altezza del suo ruolo e gli convenga ritentare, oppure sia meglio smettere. E godersi a pieno le bellezze, tipo i nipoti, di una vita già conosciuta nella sua durezza con il padre perduto a quindici anni e la moglie, compagna di una vita e madre dei suoi figli, a cinquanta.

Prandelli sceglie la prima, quando a dicembre 2018 accetta il Genoa in piena bagarre-salvezza. Terzo allenatore dopo quattordici giornate, inizia bene, ma a gennaio gli vendono Piatek (13 gol in 18 partite) e il sostituto non è all’altezza. A dieci giornate dalla fine sembra comunque fatta (+9 sulla terzultima), soprattutto dopo il 2-0 alla Juventus, ma i rossoblù non vincono più, perdono spesso e si salvano per la miglior classifica negli scontri diretti soltanto all’ultima giornata, 0-0 annunciato in casa di una Fiorentina altrettanto bisognosa di un punto per rimanere in Serie-A. Quella sera è l’unico a uscire tra gli applausi di un “Franchi” inferocito. Gli stessi, seppur virtuali a causa del Covid, che lo avevano accolto lo scorso novembre, quando aveva deciso di rimettersi la tuta e ritornare a soffrire in prima linea, a bordo campo, per quella maglia che vorrebbe fosse amata da chi la indossa come la ama lui, che nella città del Giglio ha preso casa e che per due anni ha fatto anche l’abbonamento allo stadio.

Ma l’immaginazione di guarire l’animo ferito dall’Amazzonia con un secondo romantico matrimonio in riva all’Arno si scontra fin da subito con una realtà brusca e dolorosa. Prandelli si ritrova una Fiorentina costruita male, che faticherebbe con ogni allenatore. È carente di qualità – Ribery (ormai 38 anni) unico che salta l’uomo palla al piede, Bonaventura e Castrovilli i soli che attaccano gli spazi e tirano in porta – in attacco non ha un’alternativa a Vlahovic e abbonda di doppioni sia in difesa (Martinez Quarta, Igor, Pezzella, Milenkovic) che a centrocampo (oltre ai sopracitati Bonaventura e Castrovilli, Pulgar, Borja Valero, Amrabat e Duncan poi andato al Cagliari). In più ha molti scontenti, ceduti a gennaio e rimpiazzati da sostituti (Malcuit, Kokorin) finora inconcludenti.

I problemi sono molto più grandi di quanto immaginasse – «Da fuori si ha una percezione totalmente diversa. Quando vai in campo ad allenare, capisci le difficoltà» dice. Debutta con una sconfitta interna (0-1) contro il Benevento, si accorge che la squadra non corre – «I dati fisici sono imbarazzanti» – raccoglie un punto in quattro partite e dopo lo 0-3 di Bergamo lancia l’allarme rosso. Nelle parole – «La Fiorentina è retrocessa anche con i grandi campioni» – e nelle decisioni dove, passando dalla difesa a quattro a quella a cinque (i due esterni di centrocampo sono due terzini), il sessantatreenne tecnico di Orzinuovi di fatto chiude nel cassetto il sogno di un’altra sua Fiorentina rinascimentale, bella da vedere anche per chi non la tifa.

“Spesso le nostre coscienze ci mormorano frasi che poi nascondiamo dentro di noi” canta sempre la Mannoia e forse in quei giorni dentro Prandelli ha origine l’ombra che ha citato nella lettera di addio e che lo ha divorato. Un’ombra figlia della paura. Di non essere all’altezza della situazione, di fallire dove vorrebbe trionfare e di essere ricordato non come l’ammiraglio della salvezza bensì del naufragio. È sempre una delle peggiori compagne di vita, la paura. Perché ci trascina a fare ciò che non vorremmo: sbagliare.

La sua gestione tecnica è stata all’insegna del dubbio con ventidue formazioni diverse in ventitré partite (Coppa Italia inclusa). Anche quando, come domenica scorsa contro il Milan, disponeva degli stessi effettivi che sette giorni prima avevano vinto 4-1 a Benevento. Quasi uno specchio del disagio interiore che lo assillava al punto da ricercare sempre un aggiustamento, un rimedio, un’idea per problemi che però non poteva risolvere da solo. Ha avuto il merito di lanciare Vlahovic (11 gol), di recuperare Eysseric e Pulgar e di aver dato una parvenza di gioco, anche se di “Prandelli Show” stavolta giusto qualche sprazzo. La Fiorentina non ha mai vinto due gare di fila e tante le ha gettate al vento nei minuti finali. Torino, Udinese, Roma, Parma. Vittorie diventate pareggi, pareggi diventati sconfitte, una classifica mai pericolante ma sempre rischiosa, un’atmosfera di perenne tensione aggravata da uno spogliatoio poco compatto nel seguirlo, soprattutto negli atteggiamenti. Tanto che nello scritto di commiato ha ringraziato la società, ma non i giocatori. Firenze ricambierà sempre il suo sentimento, ma meriterebbe di sapere che cosa non abbia funzionato. Perché in amore il “non detto” fa sempre più male del “detto”.

 

Ma più dei risultati singhiozzanti – 21 punti in 21 partite – da fuori quel che ha colpito di Prandelli in questi mesi è stata la perdurante assenza di un sorriso. Anche dopo le poche (cinque) vittorie, fra le quali lo storico e roboante 3-0 prenatalizio in casa della Juve, il suo volto era comunque una maschera di preoccupazione. Come se nel suo animo un macigno impedisse alla felicità di sprigionarsi e poi proseguisse inesorabile, giorno dopo giorno, nella sua azione di schiacciamento. Fino alla tachicardia, agli attacchi di panico, a non farcela più e dire “basta”.

Se sono il ko tecnico di un organismo oppresso dal senso di responsabilità, le sue dimissioni rappresentano un’accusa a un calcio malato di egoismo e la vittoria di un uomo che, preda dei suoi demoni, ha trovato il coraggio di anteporre la salute e la dignità al ruolo e alla carriera. Una scelta da rispettare, che rimanda ancora alla canzone d’apertura – “Quello che adesso hai, domani non lo vorrai” – e che ricorda come il rispetto e l’affetto per gli altri passino prima di tutto dal rispetto e dall’affetto per noi stessi. “Credo che sia arrivato il momento di fermarmi per ritrovare chi veramente sono” ha scritto. E noi glielo auguriamo. Di cuore. Rimettiti presto, Mister!

Classe 1982, una laurea in "Giornalismo" all'università "La Sapienza" di Roma e un libro-inchiesta, "Atto di Dolore", sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, scritto grazie a più di una copertura, fra le quali quella di appassionato di sport: prima arbitro di calcio a undici, poi allenatore di calcio a cinque e podista amatoriale, infine giornalista. Identità che, insieme a quella di "curioso" di storie italiane avvolte dal mistero, quando è davanti allo specchio lo portano a chiedere al suo interlocutore: ma tu, chi sei?

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