/

Calcio: professione e passione non sempre fanno rima

Inizia la lettura
/
11 mins read

Riyad Mahrez, tra i protagonisti del City di Guardiola, di recente ha sollevato l’attenzione dei calciofili per le dichiarazioni rilasciate all’emittente francese Canal+ di seguito riportate: «I miei compagni non guardano le partite, non gliene frega niente. Tante volte li ho sentiti chiedere: quanto hanno fatto ieri? Se sei un calciatore dovresti saperlo. Non puoi presentarti senza sapere i risultati del giorno prima. Ho molti amici calciatori a cui non piace il calcio. Giocano perché obbligati o convinti dai soldi».

Un’affermazione che non poteva non sollevare l’attenzione mediatica che ha avuto, che desta tra gli appassionati una domanda per loro inconcepibile: il calcio può davvero portare con sé gli aspetti negativi propri di un qualsiasi lavoro? La noia nell’affrontare allenamenti, ritiri e trasferte; lo stress dello stare quotidianamente sotto i riflettori; l’obbligo di vincere ogni partita, possono davvero spingere ragazzi milionari a considerare il gioco più bello del mondo alla stregua di un impiego in banca o tra i magazzini di distribuzione di un corriere espresso? E’ difficile crederlo per chi del calcio, e dello sport professionistico in generale, può professarsi “solo” un tifoso. Per chi, sin da bambino, ha sognato di poter diventare un idolo delle folle, calcare con gli scarpini il prato erboso dei più grandi stadi e respirare da vicino il profumo umido dell’erba religiosamente tagliata indossando la maglia della squadra del cuore, le affermazioni di Mahrez assumono il valore del paradosso.

La frase, invece, rispecchia una situazione della quale, da diverso tempo, si discute: quella della disaffezione verso il calcio che nutrono oggi le nuove generazioni, a cui i calciatori appartengono a pieno titolo. Il fenomeno, non più così marginale, ha il suo rilievo, certificato da indagini di mercato ben note ai dirigenti che, a vario titolo, gestiscono oggi il pianeta calcio: il 27% dei ragazzi nella fascia d’età compresa tra i 16 e i 24 anni ha dichiarato di non nutrire interesse per esso mentre il 13% sostiene di odiarlo. Una circostanza piuttosto inquietante, alla quale si cerca di ovviare con proposte che vanno dalla creazione della Superlega al cambiamento delle regole del gioco. Soluzioni molto probabilmente palliative, che non vanno alla ricerca delle cause di una caduta di appeal che comincia a rendere incerto il futuro dello sport più popolare del mondo. Proviamo, col beneficio di ogni legittimo dubbio, a individuarle.

LA PRESSIONE – I calciatori professionisti, quelli ai quali faceva riferimento Mahrez, sono sottoposti a un’attenzione mediatica che i loro colleghi di qualche anno fa non conoscevano. La moltiplicazione dei media e la loro capacità di riportare ogni comportamento in qualsiasi momento della giornata rende i giocatori soggetti a una pressione che poi, durante le partite, rischia di incrementare lo stress legato alla prestazione. Alla lunga il susseguirsi delle giornate diventa una routine snervante, che devitalizza l’aspetto ludico dell’attività soprattutto per color che, caratterialmente, sono meno predisposti a sopportarne il peso. Si potrà obiettare che i calciatori stessi, con i loro profili social, non fanno niente per non avere gli occhi di tutti puntati addosso. E che, a fronte di stipendi altissimi, questa dinamica fa parte del gioco. Tutto vero ma ciò non toglie che l’effetto che ne consegue può essere quello del disinteresse verso l’attività sportiva o, quanto meno, viverla come un qualsiasi altro lavoro che non ha la magia tipica dello sport.

L’EFFETTO AGASSI – Non bisogna dimenticare che chi arriva ad essere un professionista vive il calcio in maniera totalizzante già da età molto giovani. Oggi i bambini, in molti casi, non chiedono più a mamma o papà di poter iscriversi a una scuola calcio: sono spesso i genitori stessi a chiederglielo, quasi a imporlo. Per occupare il tempo, per fare uno sport, nel peggiore dei casi facendo una scommessa, un investimento sui figli nella speranza di poterne capitalizzare in futuro le qualità. In questi termini il calcio diventa un impegno ulteriore oltre alla scuola, alla lezione di musica e alle altre attività che i ragazzi sono chiamati a svolgere in una schedulazione settimanale che odora già di vita adulta e di responsabilità.

LA MANCANZA DI DESIDERIO – Ecco così che il calcio non è più qualcosa di richiesto bensì una sorta di imposizione. E ciò che è imposto, per quanto piacevole, non viene quasi mai desiderato per una dinamica che, nei giovani d’oggi, per certi versi si riscontra anche nel campo dell’attrazione fisica. L’eccesso di offerta rende l’oggetto dell’offerta stessa meno attraente: vale per il sesso, che tramite internet rende facilmente disponibili immagini e rappresentazioni che le vecchie generazioni potevano solo coltivare nello spazio intangibile della fantasia, conferendo ai ragazzi un atteggiamento più disincantato verso l’argomento. E vale per il calcio: la facilità di accedere a campi ben strutturati, con porte coi pali, le reti vere e terreni regolari allontana di anni luce le esperienze fatte ai giardini pubblici dove linee laterali, traverse e aree di rigore erano tratteggiate dall’approssimazione del desiderio di poter giocare su campi regolarmente disegnati. Esperienze che alimentavano l’immaginazione, il racconto del mito del calcio vero, che veniva concesso in fugaci apparizioni la domenica sera e i mercoledì di coppa.

L’ECCESSO DI OFFERTA – Arriviamo così a un altro punto essenziale per comprendere le dinamiche della disaffezione verso il calcio: l’eccesso di offerta. Negli anni Ottanta la nascita delle televisioni private ha aumentato la concorrenza e spinto i vari canali a proporre la trasmissione in diretta di un sempre maggior numero di partite e di competizioni, che è andata di pari passo con tornei che hanno allargato la partecipazione a un numero sempre più elevato di squadre. Il risultato è che oggi, praticamente a qualsiasi ora, è possibile vedere una partita di calcio, assistere a trasmissioni che ne parlano, leggere giornali e siti che ne sviscerano contenuti, commenti e dinamiche in un overload di informazioni che produce stanchezza ed elimina le mancanze di conoscenza che sostengono la suggestione delle fiabe.

TROPPI SOLDI – E sì, alla fine diciamo anche questo: i calciatori guadagnano troppi soldi. I migliori, con il primo contratto buono, di fatto possono considerarsi sistemati per il resto della vita. Una volta entrati nel giro che conta, l’inseguimento di un nuovo ingaggio passa più per le mani di un abile procuratore che per il numero delle buone prestazioni effettuate sul campo. Giocare tanto e bene diventa quasi secondario, almeno per alcuni: i meno ambiziosi e quelli che, per tutti questi motivi, hanno perso il gusto del gioco. E’ questa l’attitudine che spiega perché molti professionisti, godendosi lauti stipendi, preferiscono arrivare a fine contratto con una squadra nella quale non vengono più utilizzati piuttosto che trovare una nuova sistemazione. Inconcepibile per tutti gli appassionati che rubano spazio al lavoro e agli impegni familiari pur di andare la sera a giocare pagando di tasca propria.

LA CONCORRENZA – Almeno nei paesi economicamente più evoluti, il calcio deve subire la concorrenza di altri protagonisti del mondo dell’entertainment, primo fra tutti quello del football virtuale, sempre più simile alla visione di una partita in televisione, che spinge ragazzi e non a spendere ore sulla console della Playstation. Questo spiega la mutazione del regolamento, che mira a rendere sempre più spettacolare e veloce il gioco, alla continua ricerca di un sovraccarico di emozioni che, alla lunga, può portare all’overdose.

C’è un modo per arginare questo processo? Difficile dirlo. Chi ha in mano le sorti del calcio professionistico (FIFA, UEFA, presidenti dei club più importanti del mondo) dimostrano di essere guidati nelle loro decisioni solo dalla ricerca di nuove modalità per aumentare i profitti che sembrano solo alimentare ulteriormente le cause che portano alla disaffezione verso il calcio. Sarebbe forse utile, nei contesti decisionali, dare maggior spazio a chi il calcio l’ha vissuto da protagonista: trovare il giusto equilibrio tra necessità del business e salvaguardia dei suoi valori sportivi è la sfida più difficile da affrontare nei prossimi vent’anni.

Giornalista e scrittore, coltiva da sempre due grandi passioni: la letteratura e lo sport, che pratica a livello amatoriale applicandosi a diverse discipline. Collabora con case editrici e redazioni giornalistiche ed è opinionista sportivo nell’ambito dell’emittenza televisiva romana.
Nel 2018 ha pubblicato il romanzo "Ci vorrebbe un mondiale" – Ultra edizioni. Nel 2021, sempre con Ultra, ha pubblicato "Da Parigi a Londra. Storia e storie degli Europei di calcio".

Articoli recenti a cura di