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Calcio moderno: Perché il Capitale guarda la Bandiera?

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Maldini e il Milan, Moratti e l’Inter. Il passato che ritorna? No, forse meglio dire “che prova a ritornare”. Almeno nel caso dell’ex presidente nerazzurro che, secondo quanto trapelato nei giorni scorsi, sarebbe vicino a rientrare nella società dove è stato presidente dal 1995 al 2013. Troppo forte il richiamo di quei colori, del calore dei tifosi (di cui lo stesso Moratti alla fine di settembre ha ammesso di avere nostalgia), ma soprattutto l’essere parte, anche se con una piccola percentuale rispetto al passato (il petroliere acquisirebbe il 30% delle quote di Thohir), di un ambiente, l’Inter, e di un mondo, il calcio, che ha nel dna fin da giovane, quando il padre Angelo era a capo della Grande Inter di Herrera.

Per un ritorno possibile, un rifiuto certo. Quello di Paolo Maldini. Pochi giorni fa, tramite la sua pagina Facebook, il capitano e bandiera del Milan ha rifiutato la proposta di entrare a far parte del futuro organigramma “made in China” come direttore tecnico, che avrebbe svolto in coabitazione col futuro direttore generale (Marco Fassone). Nella sua decisione, serietà e amore: “Devo rispettare i valori che mi hanno accompagnato durante tutta la mia vita, devo rispettare i tanti tifosi che si sono negli anni identificati in me per passione, volontà e serietà, devo rispettare il Milan e me stesso”.

Dal terzino sinistro più forte del mondo arriva lo spunto per soffermarci su come, in Italia, nell’era del calcio “global” e “capital”, dove è sempre più massiccio l’intervento d’investitori stranieri che non hanno il calcio nei cromosomi (come sceicchi e cinesi), sembra sopravvivere la necessità di inserire nei quadri societari le bandiere, cioè quei giocatori che hanno fatto la storia di un club militandovi tutta la carriera (Maldini al Milan, Totti alla Roma, Bergomi all’Inter) o per buona parte di essa.

Come a voler mantenere un filo con la storia e il passato, venando di romantico un calcio tutto business e profitto, ma anche con la logica dei tempi correnti; se una società può essere gestita con una filosofia aziendale, è inevitabile che, per ottenere quei risultati fondamentali in ogni azienda, occorra ricorrere a risorse che, con il loro contributo, possano essere di supporto per l’ambiente. Ecco così che viene trovato un incarico all’ex atleta che si è guadagnato la fama e la stima del pubblico grazie alle sue gesta sul campo. È il caso di Javier Zanetti, confermato vice-presidente dell’Inter anche dopo l’avvento del gruppo Suning, di Pavel Nedved, alla Juventus anche in serie-B e oggi vicepresidente, oppure di Marco Di Vaio, club manager del Bologna italo-canadese di Joey Saputo. A un ruolo simile, anche se sul versante tecnico, è stato delocalizzato di recente Bruno Conti che, su mandato della nuova proprietà americana, si occuperà di visionare, in Italia e all’estero, giovani calciatori.

Uno spostamento che apre un interrogativo: perché si vogliono ancora le bandiere? Perché ci si rende conto della loro effettiva importanza per gestire situazioni negative – come Peruzzi ritornato in estate in una Lazio in comprensibile crisi d’identità emotiva per il “muro contro muro” fra tifoseria e presidenza – oppure per questioni d’immagine? Il simbolo è uno specchietto per le allodole col quale illudere i tifosi (romantici per definizione) e monetizzare la storia del club oppure un punto di forza al quale aggrapparsi nei momenti di crisi e costruire una mentalità vincente da cui ne trarrà giovamento tutto l’ambiente?

Già, perché vedere un ex campione del mondo finito a fare l’osservatore per quella società dove ha trascorso una vita sia da giocatore sia a capo di un settore giovanile generatore di talenti, lascia pensare che la bandiera assomigli, più che a una risorsa per migliorare, a un marchio da esportare. Se poi, addirittura, capitano situazioni dove si vuole affiancarla nello stesso ruolo a un altro elemento del management del domani, che magari non ha mai giocato al calcio, oltretutto subordinandocelo in casi di valutazioni divergenti sullo stesso punto, l’intento appare chiaro: metterlo in difficoltà agli occhi dei tifosi per incrinarne l’immagine e rovinarne il mito.

Classe 1982, una laurea in "Giornalismo" all'università "La Sapienza" di Roma e un libro-inchiesta, "Atto di Dolore", sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, scritto grazie a più di una copertura, fra le quali quella di appassionato di sport: prima arbitro di calcio a undici, poi allenatore di calcio a cinque e podista amatoriale, infine giornalista. Identità che, insieme a quella di "curioso" di storie italiane avvolte dal mistero, quando è davanti allo specchio lo portano a chiedere al suo interlocutore: ma tu, chi sei?

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