Riabilitata in Europa, bistrattata nel Mondo. Se con la futura riforma della Champions League riceve una boccata d’ossigeno artificiale grazie a una formula che le permetterà di schierare quattro squadre nella massima competizione europea per club a partire dal 2018-19, l’Italia subisce uno schiaffo dal ranking Fifa, che nell’aggiornamento dello scorso 15 settembre l’ha estromessa dalla “top ten” (dove era rientrata a fatica nel marzo 2015), facendola scivolare al tredicesimo posto (“meno tre” rispetto a luglio).
Vero, si tratta pur sempre di una classifica fondamentalmente scientifica, che tiene sì conto del campo, ma subordinandolo a una procedura algebrico-temporale (si prende in esame l’ultimo quadriennio attribuendo maggior peso specifico ai risultati più recenti) che produce più di un’anomalia. Per esempio, la Germania campione del mondo in carica e semifinalista a Euro ’16 è addirittura terza, dietro al Belgio (fuori ai quarti di finale nelle ultime due competizioni internazionali e dopo Euro ’12 al 53.mo posto!) e all’Argentina, sempre e solo finalista tra Coppa America (’15 e ’16) e mondiale, dove tra l’altro fu battuta proprio dai tedeschi.
Pertanto, come tutte le statistiche, anche il report del massimo organo mondiale calcistico è da approcciare con la massima cautela e va guardato non tanto sul “breve periodo” quanto sul “medio-lungo” per trarvi qualche considerazione di natura tecnica.
Soffermandosi sul dato degli azzurri, si nota come il crollo sia avvenuto negli ultimi quattro anni. Quinti a settembre 2006, cioè due mesi dopo Berlino, in questo stesso periodo del 2012 erano comodi sesti, a “-43” dall’Uruguay e a “+53” sull’Argentina. Da allora, nonostante il quarto posto di gennaio 2013, costante e inesorabile calo in favore di avversari che, dopo l’argento europeo di Kiev, erano fuori dai radar della “top 20”. Tipo il Galles, oggi 7.mo e allora 45.mo, che poco più di quindici anni fa liquidavamo in quaranta minuti nella corsa a Euro 2000. O la Colombia, attualmente alle pendici del podio, ma nel 2012 stagnante al 22.mo posto. Prive di un settore giovanile florido e consolidato, queste nazionali hanno beneficiato del classico filone aureo generazionale: per cui, ottime qualificazioni ed eccellente mondiale (i cafeteros) o europeo (i dragoni di Sua Maestà).
Ben altro discorso invece il balzo in avanti del Cile, da 14.mo a 7.mo in un lustro. Autoproclamatasi, di rigore, incubo nazionale di tutta l’Argentina, la Roja ha alzato le ultime due coppe Americhe grazie a sei giocatori (Toselli, Carmona, Isla, Medel, Vidal, Alexis Sanchez) terzi al mondiale Under 20 del 2007. E anche il Portogallo (ora 7.mo, ma che tra qualche mese beneficerà del trionfo francese) nella notte di Saint-Denis aveva sei calciatori d’argento e bronzo fra mondiale Under 20 2011 ed Europeo 2015: Cedric, Danilo, Guerreiro, Joao Mario, W. Carvalho e Rafa Silva.
Ecco allora che viene da riflettere come il mediocre piazzamento dell’Italia, se sul piano statistico accusa l’unica vittoria in dieci partite ufficiali (amichevoli comprese) tra l’ottobre 2013 e il mondiale brasiliano, risenta anche di cause molto più strutturali. Come il mancato ricambio generazionale dell’ultimo quadriennio tra under 21 e Nazionale maggiore. Della selezione di Devis Mangia, la più talentuosa degli ultimi dieci anni e seconda solo alla Spagna nell’Europeo di categoria del 2013, soltanto in quattro sono approdati con i più grandi: Florenzi, Verratti, Immobile e Insigne (per la cronaca, tutti valorizzati da Zeman). Gli altri oggi sono relegati in panchina (Regini, Bertolacci, Gabbiadini), provano a rifarsi una vita in provincia (Biraghi, Saponara, Destro), hanno espatriato (Leali, Caldirola, Donati, Marrone, Sansone, Borini, Paloschi) o annaspano in serie-B (Bardi, Colombi, Bianchetti, Capuano, Crimi). Uno, Fausto Rossi, è addirittura svincolato.
Invece ben otto “azzurrini”, cioè il doppio, del ciclo precedente (2009) entrarono stabilmente nella Nazionale “A”. Alcuni di loro (Abate, Ranocchia, Candreva e Marchisio) continuano a farne parte. Una differenza che fa capire come i numeri della Fifa non siano solo aride statistiche e che riattualizza una delle ragioni esposte la scorsa settimana sulla crisi del calcio italiano, cioè la predilezione per il business e per lo straniero da parte delle società e della federazione, che alle politiche per la tutela e lo sviluppo del nostro movimento rivolgono un pensiero degno del miglior Adriano Celentano: “Francamente me ne infischio”.