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Caio Junior e il dono soprannaturale di essere padre

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Caio Junior e il dono soprannaturale di essere padre

Testo: Ettore Zanca

Illustrazione: Enrico Natoli

In quanti modi un padre può proteggere un figlio? Tanti: tirarlo fuori a mani nude dalle macerie, correre più veloce per andare a riprenderlo ovunque si trovi, fargli capire il bene e il male e guardare quel lampo preoccupante negli occhi che solo chi ama vede di taglio. Poi ci sono quei modi involontari, il puro istinto. Quel quid soprannaturale che dopo ti fa pensare all’esistenza di angeli sporchi di fango e lavoro.

Matheus se lo chiede da quel giorno come suo padre abbia potuto salvarlo senza saperlo. Matheus è il figlio di 28 anni di Caio Junior, allenatore della mitica Chapecoense. La squadra che nel 2016 aveva sorpreso tutti arrivando in finale di Copa Sudamericana, l’equivalente della nostra Europa League. Una squadra operaia, operosa e tosta. Una famiglia in cui tutti si conoscono a memoria dentro e fuori dal campo. Un sogno che si è scontrato con una fin troppo solida realtà di un costone di montagna a Medellin, il 28 novembre del 2016. L’aereo dove viaggiava la squadra precipitò per mancanza di carburante e si salvarono in pochi, troppo pochi, con danni fisici permanenti. Tra questi non c’era Caio. la finale non si giocò. La squadra rivale, il Nacional di Medellin in teoria avrebbe vinto a tavolino, invece assegnò il trofeo alla Chapecoense. La nobiltà del dolore.

E veniamo a Matheus. Nei giorni precedenti quella partenza litiga amorevolmente col padre. Vuole viaggiare con lui per andare a vedere la finale. Il padre non vuole; è sempre stato contrario a far viaggiare familiari con la squadra e comunque la società sta organizzando un volo privato. Alla fine però il viaggio si fa con un volo di linea, Matheus a quel punto dice al padre che farà il biglietto e andrà con loro, Caio cede. Come cedono i padri sfiniti.

Viene il giorno della partenza, in hotel. Otto giocatori vedono l’allenatore prendere un ascensore con il figlio e per rispetto prendono l’altro. Caio e Matheus sono soli. Caio domanda: “hai portato il passaporto?”, Matheus risponde di no, che in mezzo a quel tira e molla se lo è scordato. Caio a quel punto gli dice “non puoi venire con noi, anzi, sbrigati a tornare a casa”. Lo abbraccia forte, gli dice “ti voglio bene, prendi questi soldi per tornare e voglio bene a mamma e a tuo fratello”. A Matheus sembra inusuale quell’affetto. Forse era solo sollievo di non dover badare lui, forse, chissà.

L’aereo precipita e Matheus apprende nella notte della tragedia, 71 morti. A quel punto è solo dolore e una serie di ricordi di figlio che amava il padre al punto da avere imparato da piccolo “Caio” prima di “mamma”. E dopo arriva la consapevolezza dello strano gioco innescato dal destino. Matheus non aveva il passaporto, ma per andare in Colombia il passaporto non serviva. Bastava un semplice documento.

Se uno dei giocatori fosse stato nell’ascensore con loro, avrebbe tranquillizzato Matheus e l’avrebbe fatto partire ma non è andata così e l’amore di un padre si è chiuso con un “ti voglio bene”. E una domanda: in quanti modi conosciuti un padre può salvare la vita al proprio figlio?

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