Pugni, violenti e precisi. Tecnici. Raffiche di montanti, diretti e jab, che si schiantano su tela carichi di vernice colorata. Il risultato è un’opera d’arte fatta di decine e decine di cerchi colorati, impronte di guantoni che colano fino ai piedi della tela come sudore che fluisce sul volto di un pugile sul ring. Si chiama “breaking through” la forma d’arte che Omar Hassan, 28enne milanese dalle mani di piombo e il sorriso lucente ha ideato dopo una vita nel segno del pugilato e della pittura. “Breaking through”, letteralmente: “rompere attraverso”, eppure i suoi pugni più che demolire, creano: “è una metafora: abbattere le barriere artistiche attraverso la boxe”, spiega Omar.
Nato da madre italiana e cristiana e padre egiziano e musulmano, che hanno generato in lui una dicotomia esistenziale e artistica, e che non finirà mai di ringraziare perché “grazie a loro ho una visione più ampia delle cose, che si riflette anche nella mia arte”, Omar ha cominciato imbrattando muri e treni in corsa con tag e murales accompagnando amici writers della zona est di Milano, dove è cresciuto e si è formato più come uomo che come artista, perché “quell’adrenalina che spingeva i miei amici a dipingere non mi coinvolgeva, non faceva per me”.
Quei fuggevoli spruzzi di bomboletta non erano abbastanza, Omar voleva di più. E la vocazione artistica che sentiva dentro scalciava sempre più forte, ma non voleva venire fuori in maniera clandestina, voleva essere cullata e cresciuta con amore e dedizione. Poi la morte di Marco, fratello di quartiere travolto da uno dei tanti treni che dipingeva, ultima fermata di una vita all’insegna del rischio. Un diretto al cuore che manda Omar al tappeto. Ma quel dolore così inaspettato e lacerante si trasforma in spinta decisiva per partorire la sua arte: “sentivo che gli dovevo qualcosa, gli ero riconoscente”.
Decide di iscriversi all’Accademia delle Belle arti di Brera, ed è qui, studiando Manzoni, Pollock e Fontana, che avverte la necessità di cercare un gesto pittorico che lo raccontasse. Lo trova nel “pallino che cola”, lo spruzzo primordiale, quello che ogni street artist è obbligato a fare prima di iniziare un lavoro con la bomboletta e che diventa il suo tratto distintivo: “uso i pallini perché sono la prima lettera dell’alfabeto della cultura street”. Migliaia e migliaia di pallini colorati che Omar realizza ovunque, partendo da muri e passando per calchi in gesso raffiguranti vittorie alate e veneri mutile, scarti di discarica e objects trouvés, fino a riportarli su tela, come una vero dadaista che sovverte ogni codice artistico e culturale.
Ma parallelamente all’arte c’era anche la boxe, eccome se c’era la boxe. A 16 anni Omar è un vero e proprio portento del pugilato e, proprio come con l’arte, con la boxe ha un approccio intimo, cogliendone immediatamente il lato filosofico: “l’arte è la perfetta metafora della vita: combattere, da solo, per rimanere in piedi”. Potente come un tuono e veloce come una farfalla, sul ring stende chiunque. A prenderlo sotto i suoi insegnamenti è il grande maestro Ottavio Tazzi, per tutti “il nonno”, che dopo aver allenato otto campioni del mondo tra i quali Rocky Mattioli e Giacobbe Fragomeni, si trova tra le mani questo ragazzino prodigio, accorgendosi subito che in lui c’è qualcosa di speciale. Ad attenderlo c’erano già Clemente Russo e i guantoni della nazionale, ma i sogni di gloria di Omar durano il tempo di qualche visita agonistica, quelle che alla voce “diabete” impongono senza riserva lo stop obbligato dall’attività. La sua carriera si chiude dopo 18 incontri amichevoli, dai quali solo una volta è uscito sconfitto.
Dalla legge della medicina sportiva non si può difendere, contro l’eccessivo glucosio il suo spirito guerriero non può nulla. Ancora oggi, le parole di Tazzi gli rimbombano nella testa: “La boxe ti riesce come camminare, ma non la puoi fare. Metti le tue qualità a disposizione degli altri”.
Così Omar inizia a insegnare e fare da sparring partner a giovani pugili che ancora possono coltivare quel sogno che lui ha dovuto abbandonare, mettendoli sempre a disagio perché puntualmente meno bravi di lui. Il dolore, nel frattempo, diventa arte. Ancora una volta. Quei pallini che aveva cominciato a sviluppare diventano il riverbero della sua malattia: “dipingevo 5 pallini al giorno, equivalenti alle mie insuline”.
Il tempo passa, e per Tazzi, ormai vecchio e stanco, suona l’ultima campanella. Lì, sul letto di morte, nonostante l’eredità e gli insegnamenti di boxe e di vita che per 70 anni ha dispensato a tanti pugili e uomini, a tenergli la mano fino alla fine c’è Omar, quel ragazzo che più di tutti, forse, il “nonno” avrebbe voluto vedere con una medaglia d’oro al collo. Per Omar è un altro addio difficile, ma anche un nuovo momento di svolta. L’ultimo respiro di Tazzi è il lascito che lo convince a declinare la boxe all’arte, e intrecciare così i due fili della sua vita.
È il 2009, e Omar comincia a sviluppare la sua idea del “breaking through”, con qualche indugio. La paura del giudizio di chi non avrebbe compreso e apprezzato la fusione di questi due mondi, e l’intenzione di portare un concetto, quello dello sport, nell’arte, lo spaventa. Non che questo fosse un binomio inesplorato, da “Le boxeur” dipinto da Alberto Savinio negli anni Venti a Guttuso e i suoi cicli pittorici sulle varie discipline sportive, sono tanti i riferimenti dell’arte allo sport. Ma nel caso di Omar la questione è diversa: lo sport, invece che essere rappresentato nell’arte, diventa mezzo per generare arte. Un vero e proprio “mariage des muscles et d’ésprit”, per dirla con Pierre De Coubertin. Gli chiedo di associare un pugile a un artista e sta al gioco: “Muhammad Ali e Amedeo Modigliani, per la loro sana sfrontatezza. Anche Tyson e Lynch è un accostamento suggestivo”, come a volere dire che un ponte fra le due cose c’è, e non è nemmeno troppo immaginario.
Passeranno sei anni prima che riesca a spogliarsi del tutto di quella paura: è il 2015, e Omar espone per la prima volta in pubblico la sua arte visionaria, frutto della sua esperienza di vita, in una mostra alla galleria di arte moderna Contini Art Uk di Londra, tra lo stupore del curatore e di tutti i presenti che assistono dal vivo alla creazione del suo “breaking through”.
Dopo quell’evento, Omar ha esposto le sue opere a Miami, Singapore, Londra, Tokyo, e oggi i suoi pugni colorati sono richiesti in ogni angolo del mondo. Ad aprile si esibirà in una performance al Pirellone di Milano, dove tra gli invitati pare ci sia Salvini: “spero di no, non vorrei che mi scappasse un pugno”.
Articolo bellissimo e rubrica interessantissima.
complimenti
Che storia!
Amo lo sport, la cultura e l’essere umano. Spero proprio che questa rubrica possa avere lunga vita.
Gran bella idea!
Non vedo l’ora di leggere il prossimo racconto.
Bella storia, raccontata con calore e passione dalla penna magica di Federico Corona
Contenuti raccontati con grande espressivita’. E’ un binomio che merita, quello dell’arte e dello sport, e raccontandolo cosi e’ stato meritatamente esaltato.
Salvini invitato numero uno
Federico Corona è una piacevole rivelazione in punta di penna. Complimenti
veramente bello, di in’intensità emotiva notevole. Grande Federico.
Coinvolgimento emotivo molto intenso ed articolo scritto con gusto e stile inconfondibile . Bravo Federico . Marco
Grande amico e grande artista! Un bellissimo articolo che rispecchia la tua personalità e l amore che hai verso il prossimo. Sei un grande Omar ??
Notevole Omar. Non si può che augurarti ogni bene.
Grande Mido!
Una grande persona, un grande artista, con tutta la vita davanti per continuare ad esprimersi e a mostrarci le sue opere piene della sua personalità e del suo amore per le persone e per l’arte.
S.