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Il Boom dei Videogiochi sulle spalle dei lavoratori
Malpagati, precari, costretti a lavorare anche 70 ore a settimana senza sosta. Quello che probabilmente non immaginate è che stiamo parlando di ingegneri, disegnatori, matematici, grafici e programmatori. Tutte mansioni ad altissima specializzazione.
Questo gruppo di semi-schiavi del nuovo millennio sono i Game workers, ovvero tutte le figure dietro la realizzazione dei videogiochi che entrano poi nelle nostre case.
L’industria dei videogame ha fatto registrare un fatturato di 43 miliardi di dollari lo scorso anno, ma le condizioni di chi questi giochi li crea partendo solo dall’idea è medievale: orari impossibili, solo 13 dollari l’ora, vessazione continua e soprattutto il licenziamento una volta che il gioco è uscito in commercio.
Pensate che solo il gioco Call of Duty ha fatto registrare 500 milioni di dollari in vendite nei primi giorni di uscita.
Ora questa piccola nicchia che le persone normali pensava dorata – “Sei il programmatore di Call of Duty? Che figo, ti copriranno d’oro” – sta lottando per avere condizioni migliori e dopo la visita del senatore rosso del Vermont, nonchè candidato forte alle primarie democratiche e probabile nemesi di Donald Trump alle prossime elezioni presidenziali americane, Bernie Sanders, i gamers hanno cominciato a fare qualche passo ufficiale per difendere i loro diritti tra cui la creazione del sindacato “Game Workers Unite”. Il loro simbolo è un pugno bianco che tiene in mano un joystick su sfondo nero.
Insomma che sia comune, generico o specializzato questa triste storia ci mostra che grazie o a causa delle globalizzazione, in base a come la pensiate, il lavoro sia comunque e ovunque sottopagato e il lavoratore, messo in condizioni infime, sia sempre l’ultimissima ruota del carro. Malgrado i profitti da record.
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