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Antonio Careca, quando Dio aveva anche il piede destro

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Antonio Careca, quando Dio aveva anche il piede destro

Araraquara: più uno scioglilingua, che un luogo fisico, nello stato di San Paolo. Una vocale e una consonante ripetute alternandole, come una serie di finte al limite dell’area, prima di guadagnarsi lo spiraglio per lasciare il difensore con la lingua e le gambe intrecciate. In un posto con un nome simile si nasce attaccanti, prima che calciatori.

Antônio de Oliveira Filho, per l’anagrafe; Careca per farsi raccontare come uno che i gol la maggior parte delle volte non si limitava a segnarli: li incideva sull’erba, prima di depositarli oltre la linea bianca. E per gli almanacchi il suo piede era il destro; per i cronisti li usava entrambi quasi con la stessa efficacia; per chi l’ha visto era un cecchino anche di testa: chirurgico nel ricavarsi lo spazio in area, perentorio nel proiettarsi in elevazione ben oltre il suo metro e ottantadue di statura.

Non conosceva ancora tutte queste sfumature il presidente Ferlaino, la prima volta che lo vide in televisione, con la maglia del San Paolo, durante quella vacanza invernale in Brasile. Forse anche per questo ebbe modo di godersi tutto l’insieme, al punto tale da dare mandato ai suoi dirigenti di portarlo a Napoli. In un Napoli già grande, già per la prima volta scudettato, con un attacco che recitava Maradona – Giordano – Carnevale, perché valesse la pena di aggiungere un’altra perla al diadema, bisognava portare un grandissimo. E con quelle stimmate arrivò, nell’estate del 1987, al prezzo di quattro miliardi di Lire. Rivelandosi dopo qualche settimana più grande ancora che nelle premesse, già entusiastiche, che lo accompagnavano.

Da un San Paolo all’altro; dal club che lo aveva fatto uomo e calciatore, dopo che il Guarani di Campinas aveva accudito il suo embrione calcistico, allo stadio che per lui si entusiasmò pur avendo già conosciuto l’entusiasmo massimo. La Curva B, trascinando tutto gli altri settori, gli cantava “Tira la bomba”, restringendo per la sintesi di un coro tumultuoso tutto il repertorio vastissimo dei suoi modi di scrivere “Gol” sul tabellone di Fuorigrotta. Antonio Careca quando puntava il difensore stava già moltiplicando pani e pesci di passi di danza rapidi, frenetico samba danzato su una mattonella invisibile a chi lo aveva in consegna, a chi si sottoponeva alla tortura di controllarlo.

In quegli anni vissuti trionfando col Napoli più grande di sempre, lui riuscì a brillare di luce propria con Maradona nello stesso spogliatoio e Marco Van Basten come avversario e termine di paragone; mai satellite di nessun altro fuoriclasse, sempre al centro di quella specie di sistema solare che era la Serie A della seconda metà degli anni ottanta. Forse la maggiore testimonianza della sua grandezza, la più fulgida, fu rappresentata dal fatto che gli infortuni non intaccarono la sua grandezza tecnica: furono soltanto le pause di un’interruttore prima che tornasse la luce.

Quando se ne andò, nell’estate del 1993, dopo aver fatto in tempo, ormai trentatreenne, a vivere anche il declino del Napoli dopo quelle stagioni irripetibili, lasciò in dote alla città e alla sua tifoseria due nitide impressioni, destinate a diventare ancora più limpide col passare degli anni: uno così difficilmente lo avrebbero rivisto, se presto o se mai non lo abbiamo ancora capito e, se indiscutibilmente Dio in quelle stagioni aveva messo la mano sopra il Vesuvio, con altrettanta certezza sappiamo a chi decise di affidare il suo piede destro.

Romano, 47 anni, voce di Radio Radio; editorialista; opinionista televisivo; scrittore, è autore di libri sulle leggende dello sport: tra gli altri, “Villeneuve - Il cuore e l’asfalto”, “Senna - Prost: il duello”, “Muhammad Ali - Il pugno di Dio”. Al mattino, insegna lettere.

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