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Andrea De Beni e quel canestro con la vita: “Gli ostacoli non sono insormontabili ma opportunità di crescita”

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Un grande campo da basket vuoto che piano si riempie: prima un bambino che lo attraversa e poi un gruppo di giocatori in maglia blu. Fra questi, ce n’è uno che gioca con una protesi al posto della gamba destra ma lui è come se non se ne accorgesse: corre e tira con naturalezza. Così inizia il “film” che Andrea de Beni, giocatore di pallacanestro nato con una malformazione genetica alla gamba, ha voluto regalare allo sport che gli ha cambiato la vita. Lui stesso è uno degli attori. Con Andrea parlo per la prima volta al telefono, non ci conosciamo eppure da subito è uno di quelli che ti trasmette allegria, energia, ottimismo e positività. La sua è una vita piena d’impegni, come padre e come marito e poi nel suo lavoro. Eppure appena gli chiedo del suo primo amore, la stanchezza di una giornata scompare come per magia.

Partiamo dalle origini. Quando è iniziata la tua storia d’amore con il basket?

Ventitré anni fa, alle scuole medie (avevo 13 anni) e in maniera del tutto casuale: il professore di educazione fisica che mette fra le mie mani un pallone e io che m’innamoro del suono che fa la palla quando entra nella retìna. Da allora inizio a vivere la pallacanestro tutti i giorni, per intere ore, nel weekend, 365 giorni l’anno. E se non gioco a basket lo guardo in tv, leggo libri sul tema, gioco ai videogiochi, vedo film…insomma diventa una cosa totalizzante e il basket mi entra sotto pelle. La mia famiglia non mi ha mai ostacolato nella pratica sportiva, né mi ha mai forzato a farla. Mio padre forse all’inizio era un po’ restìo, l’idea che io potessi mettermi “in vetrina” con partite campionati non lo entusiasmava. Però non mi ha mai detto “non farlo”. L’importante era fare le cose fatte bene, questo è sempre stato il motto di famiglia: avrei potuto fare catechismo, calcio, bocce, cimentarmi nella scrittura… l’importante era iniziare qualcosa e portarla a termine, con determinazione.

Forza di volontà e inclusione sociale sono i temi principali del video che hai realizzato “in onore” del basket. Com’è nata quest’idea?

Dall’esperienza sul campo. È più unico che raro vedere una persona disabile che gioca con i normodotati nella pallacanestro amatoriale, perché di norma si associa la presenza di un handicap motorio al basket in carrozzina. Il basket mi ha reso consapevole del mio corpo. Quando gioco da bipede le partite di pallacanestro, lo faccio con naturalezza. Mi piace, lo faccio e questo fra il pubblico, gli avversari, provoca sempre un po’ d’emozione e per molti è fonte d’ispirazione, un esempio. Questa mia naturalezza è dirompente, lascia un grande segno, per il semplice fatto che io sono alla pari degli altri nonostante il mio handicap. Ho deciso quindi che non mi stava più bene incontrare e “motivare” le persone casualmente: volevo trovare qualcosa che mi permettesse di entrare direttamente in casa loro. Così è nata l’idea di questo microfilm in cui io ho immaginato la storia, che però non avrebbe preso forma senza Ettore Messina, allenatore degli Azzurri di pallacanestro: entusiasta del mio progetto mi ha permesso di coinvolgere come attori del video proprio i giocatori in maglia blu. Per il badget invece ho avuto l’appoggio di Intesa San Paolo, che ha finanziato la realizzazione del video: il mio obiettivo era quello di creare qualcosa che potesse emozionare e motivare, per far capire che il basket da a tutti una possibilità.

Hai detto che il basket ti ha reso consapevole di come sei. Secondo te oggi qual è il filo rosso che lega disabilità e sport?

Quando ero ragazzo io, ancora non si era capaci di trattare con un disabile e ad immaginarlo come un atleta. Fino a qualche anno fa, tutto ciò risultava come qualcosa di strano, il disabile atleta era una specie di mosca bianca. Oggi invece siamo abituati alla figura dello sportivo che può essere quello olimpico o paralimpico: grazie ai media che ci fanno conoscere le realtà sportive che riguardano i disabili, le federazioni che si muovono, l’inclusione diventa potenzialmente più semplice. Un ragazzo, per esempio, paraplegico oggi ha la possibilità di fare mille cose. Vent’anni fa non si sapeva nemmeno da che parte cominciare.

Possiamo quindi parlare di un sano mondo dello sport per disabili?

In questo mi sento di essere un po’ critico: purtroppo il disabile ha la tendenza a voler superare i propri limiti andando oltre la consapevolezza di sé. Spesso nell’ambito degli sport paralimpici la pratica agonistica supera il concetto di sport sano e si perde quella magia propria dell’attività sportiva che non per forza deve essere vissuta a livello agonistico.

Questo però accade in tutto il mondo sportivo.

Certo, però gli atleti disabili rispetto ai normodotati hanno una serie di classificazioni e qualificazioni della persona che in altri ambiti non ci sono. Ti faccio l’esempio Pistorius perché è un esempio forte: io credo che far correre Pistorius con i normodotati sia un’emerita ca….ta. Se tu hai una donna che corre i 100mt in otto secondi, non per questo la fai correre con gli uomini. Nell’ambito dello sport femminile sarà una donna che vincerà per 20 anni nell’ambito della sua categoria e basta. D’altronde nello sport è sempre capitato che ci fosse qualcuno più bravo degli altri e a quel punto gli altri “corrono” dopo di lui. La forzatura di Pistorius è stata secondo me soltanto una manovra economica e pubblicitaria: è proprio così che si perde la “magia” dello sport perché si diventa strumenti e non si è più atleti. Non perché sei disabile devi chiuderti in casa ma non per questo devi dimostrare a tutti i costi qualcosa che nessuno ti ha chiesto di dimostrare.

Per te il basket è uno stile di vita oltre che uno sport in sé. Cosa ti ha insegnato?

C’è da dire che oggi io sono soprattutto un padre, un marito, un lavoratore. Il basket lo vivo nelle mie partite settimanali con la squadra, non è più onnipresente come da ragazzo ma c’è sempre, non manca mai e ha avuto un lascito enorme: Io nasco con un’ ipoplasia alla gamba destra. Esiste quindi un Andrea pre-basket e uno post basket. Il primo è un Andrea timido, che si vergogna di questa condizione di handicap e arriva agli anni dell’adolescenza da “sfigato”: sono gli anni in cui essere piacente e piacevole è fondamentale, sono gli anni dei primi innamoramenti e quindi c’è una grande insicurezza di fondo che va a dominare i rapporti umani. Gli anni prima del basket sono anni duri, anni del giudizio, anni in cui sentendomi inadeguato non trasmettevo a chi mi era accanto tutta questa positività. L’incontro con la pallacanestro mi ha cambiato, l’Andrea post basket non ha più pensato a quante gambe c’erano sotto i calzoncini. Perché quando giochi a pallacanestro sei concentrato sull’obiettivo: attaccare, difendere, far vincere la tua squadra e ho cominciato a non vedere più come qualcosa di centrale in me la presenza di una gamba diversa dall’altra. L’agonismo e la velocità di questo sport ti obbligano a non pensare a questa cosa. Questo non vuol dire negare l’handicap ma semplicemente sono diventato consapevole di come sono fatto. Il fatto di non avere una gamba non è l’elemento caratterizzante di me, questo mi ha insegnato il basket. L’Andrea di prima invece lo individuava come elemento fondamentale che lo faceva sentire uno sfigato. Se c’è passione per qualcosa, qualsiasi cosa, il metodo per superare un ostacolo lo trovi. Ho imparato che nulla è impossibile a patto che non ci si pianga addosso.

 

 

 

 

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1 Comment

  1. intervista bellissima, piena di emozioni. Andrea fa capire come nella vita non bisogna mai arrendersi nè piangeri addosso!

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