André “The Giant”, diventai grande in un tempo piccolo
Avrebbe compiuto ieri 76 anni André Roussimoff, meglio conosciuto come André “The Giant”, famosissimo campione di wrestling, un’icona della nostra gioventù. Vi raccontiamo la sua storia.
/Così la donna cannone,
quell’enorme mistero volò
tutta sola verso un cielo nero nero s’incamminò.
Tutti chiusero gli occhi nell’attimo esatto in cui sparì,
altri giurarono e spergiurarono che non erano stati lì./
F. De Gregori, La donna cannone
Ci saranno stati anche per lui quei momenti in cui ci si sente piccoli, come capita a tutti noi; con la maledizione di non poter mai essere invisibile, perché qualche pezzo della sua ombra si sarebbe comunque allungato fino a raggiungere anche lo sguardo di chi tentava di evitarlo. Ma in realtà lo evitavano in pochi, perché in troppi avevano capito che uno così devi farlo vedere il più possibile alla gente, o meglio alla folla, che deve sempre saziarsi con qualcosa di anomalo per poi rassicurarsi nella convinzione di essere normale.
Cos’era normale per lui? Forse la lattina di birra che fra le sue dita sembrava avesse le dimensioni di una pila elettrica, o la mano di Muhammad Ali che faceva pensare a quella di un bambino nero, quando battevano il “cinque”; o, ancora, Sylvester Stallone tenuto in braccio come un ragazzino di otto o nove anni al massimo.
Gallina dalle uova d’oro, nel frattempo cresciuta a dismisura, come fosse uno struzzo, per uno stuolo di impresari che con lui si arricchirono rendendolo soltanto più o meno benestante. Di volta in volta si avvicendarono i suoi soprannomi, sempre per scelta altrui, sempre ideati con cura per sottolineare quanto il pubblico dovesse provare stupore, sgranare gli occhi, parametrare le sue proporzioni alle proprie. Senza mai arrivare ad averne paura, nemmeno quando gli ordinarono di farsi crescere un enorme cespuglio di capelli, o di lasciare le sopracciglia incolte, per incutere timore, perché bastava intercettarne lo sguardo, anche attraverso lo schermo del televisore, per vederci quello di un bambino che, se avesse potuto, si sarebbe nascosto in qualche angolo di casa come potevano fare tutti gli altri. Invece era diventato ben presto troppo grande per i sedili del pullman dove ogni altro ragazzino trovava il proprio posto per farsi portare a scuola. Ecco perché lo accompagnava a scuola quel suo vicino di casa così celebre, ritiratosi in un angolo remoto di Francia per scrivere i suoi capolavori, quel Samuel Beckett che era ben felice di portare dalle maestre quel bimbo già grosso come tanti uomini, mentre il padre di lui lavorava al restauro dell’appartamento del grande scrittore.
Gli piaceva studiare, ma la forza e la stazza che si intravvidero in lui sin dai primi anni fecero sì che i suoi lo convincessero di essere tagliato per la vita dei campi. E dire che ancora non avevano capito, né lui poteva saperlo, quanto fosse destinato a crescere in realtà: acromegalia, oggi sappiamo cos’è. Crescono a dismisura le ossa, soprattutto quelle delle estremità, gambe e braccia, a causa di una anomala esposizione dell’organismo al GH, l’ormone della crescita.
Perché si ritrovò su un ring di lotta libera, quando si chiamava ancora “catch”, prima di diventare “wrestling”, come la chiamiamo oggi? Perché glielo proposero; perché sapevano che esponendolo all’altrui meraviglia gli incassi si sarebbero moltiplicati, tra l’altro riservando al protagonista la fetta più sottile della torta. Così come fu ovvio che iniziassero a portarlo in giro per il mondo, per contare i soldi e le bocche spalancate di chi lo vedeva farsi largo tra le corde elastiche che delimitano il quadrato.
Con i pantaloncini neri aderenti e l’intera stazza al centro del fascio di luci, non poteva che diventare un’icona di quel caravanserraglio, molto più circense che sportivo, che era l’ambiente dei lottatori negli Stati Uniti, tra la fine degli anni settanta e l’inizio del decennio successivo. Erano come una moderna Commedia dell’arte, “maschere” che si contrapponevano, ognuna rappresentativa di un carattere, di un’attitidine, di un modo di combattere che celava una personalità.
Quello che ci incuriosiva di più, da ragazzini, era Jake “The snake” Roberts, che si portava sempre un pitone dentro un sacco; il più atteso era invece Hulk Hogan, quando iniziava a scuotere la zazzera bionda dando fintamente di matto. Ma il più celebre di tutti era lui, che ci guadagnò fama mondiale e il soprannome definitivo: André “The Giant”, il gigante, che espose destino e malattia ai riflettori, che da solo ribaltava più di un avversario, che una volta si vide offrire un contratto nella NFL, la lega di football americano, dove se avesse accettato avrebbe finito di massacrare ossa e schiena, già così sottoposte a una fatica innaturale.
Non c’è episodio, nella sua biografia da personaggio, quello che schiacciò ben presto la persona, che non abbia avuto anch’esso qualcosa di enorme, di spropositato: come quando bevve una quantità tale di bottiglie di birra da ritrovarsi sul pavimento dell’albergo dove alloggiava, senza che nessuno, ovviamente, riuscisse a tirarlo su. Dovettero aspettare che si svegliasse.
Una notte di gennaio del 1993, il suo cuore, grande anch’esso per dimensioni e chissà quanto fragile, quanto delicato, smise di battere, durante il sonno, in una stanza di Parigi. Forse per un dispetto estremo, per non dare tempo alla vita di rivolgergli le scuse che, nonostante la fama, i soldi, le comparsate nel cinema, gli avrebbe dovuto. Forse per risparmiare le sofferenze della vecchiaia al corpo di quel bambino che non seppe mai cosa volesse dire nascondersi per gioco sotto una sedia.
Storia di André Roussimoff, figlio di un bulgaro e di una polacca, nato a Ussy sur Marne, un sobborgo a una sessantina di chilometri da Parigi. Qualcosa di piccolo, forse l’unica cosa, nella sua vita. Da raccontare a tutti quelli, compresi voi che leggete e compreso chi scrive, che ogni volta che si accalcheranno attorno al fenomeno dimostreranno sempre di essere la parte peggiore del baraccone.