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“American Icon”: l’intervista all’autore Valerio Iafrate

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“American Icon”: l’intervista all’autore Valerio Iafrate

Lo sport come riferimento, simbolo, patrimonio di valori e volano dei diritti civili negli Stati Uniti: attraverso una galleria di profili di campioni scelti ad arte, Valerio Iafrate racconta e scandaglia questo rapporto tra un popolo e i miti sbocciati nelle discipline più amate. Ci siamo intrattenuti con l’autore.

 Innanzitutto una curiosità: l’America per te, in generale…

E’ un riferimento, sia dal punto di vista sportivo che da quello culturale: mi sono innamorato dell’american way of life da adolescente e ancora adesso, a cinquant’anni compiuti, mi piace pensare, pur essendo greco per un quarto, quella di mia nonna materna, di “essere nato per errore fuori dai confini statunitensi”, parafrasando Eugenio Finardi.

Il primo aspetto che hai curato nel libro è quello riguardante il rapporto tra la società statunitense e il mondo dello sport.

Sì, sono partito da lì, perché per scrivere una storia dello sport – per quanto sintetica e declinata attraverso i profili di alcuni atleti – non puoi prescindere dal rapporto che si instaura tra il mondo dello sport e la società. Se poi, come nel caso degli USA, alcune di queste discipline sportive hanno fatto parte della vita dei Presidenti – praticamente tutti – ti rendi conto che quello tra lo  sport e la società americana è un rapporto unico. E che tale resta anche “scendendo” di livello, ovvero analizzando quanto sport ci sia nella vita di ogni singolo americano.

Hai accostato nomi arcinoti a livello planetario ad altri che potremmo definire più “di nicchia”. Cosa ti ha guidato nella scelta? Quali criteri hai adoperato?

Il criterio in realtà è stato solo uno: cercare di isolare, decennio per decennio – ho diviso la storia dello sport americano in tredici decadi, partendo dal 1900 e terminando con il 2020 – le figure sportive che più hanno incarnato i valori universali dello sport come uguaglianza, fair play, rispetto, e che attraverso la loro parabola sportiva sono riusciti a rappresentare un esempio per chi li seguiva. 

Il campione che ti ha più ispirato in assoluto?

Rispondo Edwin Moses. Avevo sei anni quando lo vidi correre per la prima volta – ai Giochi di Montreal, nel 1976 – e da allora, grazie a lui e ad un altro fenomeno, Alberto Juantorena, mi sono innamorato follemente dell’atletica, che è stata per anni la mia disciplina d’elezione. E anche se io correvo i 400 piani, vedere che ci fosse un uomo che, come Moses, copriva la distanza tra un ostacolo e l’altro in tredici passi anziché in quindici mi ispirava l’idea del no limits, che poi resta il fondamento per eccellenza dello sport, ovvero il costante tentativo di superare i propri limiti. Scoprire, poi, che Moses si allenava da solo, che aveva scelto un college – il Morehouse – che gli garantiva la possibilità di studiare ingegneria rifiutando altre borse di studio, e che, soprattutto, si batteva per i diritti degli afroamericani, pur non essendo lui, figlio di due docenti universitari, l’espressione migliore dell’underdog della vita, non hanno fatto altro che accrescere la mia stima.  

Già dalla presentazione, è un libro particolarmente adatto ai ragazzi. Quali aspetti ti piacerebbe che venissero colti dai lettori più giovani?

Per tutto quello che dicevo prima mi piacerebbe che il libro potesse ispirare, nei ragazzi, una sorta di emulazione positiva, spingerli a dare il meglio di sé – non importa in quale ambito – per contribuire a migliorare la nostra società. Perchè ognuno di noi, non suo piccolo, può contribuire a  cambiare le cose.

Per la società contemporanea, quanta forza possono avere lo sport e i grandi campioni nel veicolare messaggi socialmente utili? Che esempi ti vengono in mente?

Lo sport possiede una forza enorme, una capacità comunicativa che lo accomuna, in questo, all’arte. Se pensiamo ai milioni di follower di Messi, di Cristiano Ronaldo, di Lebron James o di Serena Williams non possiamo non renderci conto di quante persone, nella stragrande maggioranza giovani e giovanissimi, i loro messaggi siano in grado di raggiungere. E se questi messaggi sono positivi, se trasmettono valori positivi, allora lo sport è davvero in grado di cambiare il corso della storia. Come hanno fatto, prima di loro, Jackie Robinson, per esempio, che ha abbattuto la barriera del razzismo nel baseball – una delle ferite che lo sport americano nonostante gli sforzi non riuscirà mai a rimarginare – o Kareem Abdul Jabbar, che boicottò, da solo, l’Olimpiade di Messico ’68 – altri, come Smith e Carlos, scelsero di andare e poi di protestare contro i diritti negati alla popolazione afroamericana – oppure, in tempi più recenti, Martina Navratilova, la prima che si è battuta in favore dei diritti della comunità LGBT,  o Serena Williams e la sua battaglia, vinta, per la parità di genere nel tennis, con i montepremi dei torni parificati per uomini e donne, oppure Allyson Felix, una delle mie “icone” preferite, che, con il suo esempio, la sua tenacia e la sua forza di volontà, ha dato un impulso decisivo nella tutela delle mamme-atlete.

Romano, 47 anni, voce di Radio Radio; editorialista; opinionista televisivo; scrittore, è autore di libri sulle leggende dello sport: tra gli altri, “Villeneuve - Il cuore e l’asfalto”, “Senna - Prost: il duello”, “Muhammad Ali - Il pugno di Dio”. Al mattino, insegna lettere.

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