A volte ritornano. Partiti in 102 nel 1620 con la nave MayFlower, i discendenti di quei padri pellegrini che scapparono dalla terra della Regina e colonizzarono l’America sono tornati e si sono comprati più di mezza Premier League.
Crystal Palace, Manchester United, Liverpool (due volte), Arsenal, Aston Villa, Sunderland, Fulham, Millwall, Derby County, Swansea, Bournemouth (25% proprietà americana) e con il Barnsley, obiettivo di un consorzio a stelle e strisce che potrebbe essere il prossimo.
Pochi, se non nessuno, hanno riscontrato il benvolere del pubblico. Il caso più eclatante quello dei padroni del Manchester United, la famiglia Glazer, che ha avuto da subito attriti con i fans che sono arrivati addirittura a creare una nuova squadra lo United of Manchester che milita nella National League (serie dilettante). Tanto meglio in popolarità non è andato neanche agli altri proprietari, specialmente quelli di Fulham, Aston Villa e Sunderland che sono retrocesse, mentre lo Swansea si è salvato per il rotto della cuffia.
“Non è giusto affermare che siano stati tutti completi fallimenti”, ha affermato Chris Anderson, consulente che ha aiutato i proprietari americani a comprare le società inglesi, a proposito delle proprietà a stelle e strisce in Premier. “Molti hanno riscontrato difficoltà con le dinamiche del gioco e dell’industria. Non riescono a comprendere la natura della bestia”.
Secondo Steven Gans, avvocato di Boston che ha consigliato e continua a farlo squadre e proprietari americani ma anche inglesi, ci sarebbe una diretta connessione tra come i genitori americani approcciano le gare calcistiche dei loro figli e l’approccio dei proprietari americani rispetto ai club acquistati e pagati milioni e milioni di dollari. Questo è secondo lui la radice del problema che stanno riscontrando gli americani da quando hanno iniziato ad arrivare in Inghilterra: “I genitori dei bambini che giocano a calcio tendono a non metter troppo bocca nel gioco perché non avendo un’educazione, un background, i rudimenti base del calcio, come invece hanno per basket, football e baseball, sono insicuri, riconoscono di non conoscere, entrano in punta di piedi e si affidano a persone esterne che magari ne sanno di più ma semplicemente non sono la persona giusta. Stessa cosa accade agli imprenditori quando comprano un nuovo asset distante e fuori dal loro campo di azione, di studio e di conoscenza”.
Il problema per i proprietari americani, almeno all’inizio, continua Gans, “E’ quello di trovare la persona giusta di cui fidarsi. Quando uno straniero atterra in una città straniera, gli può capitare di pagare il taxi molti più soldi di quanto sia il reale prezzo della corsa, e che fa? Paga perché non lo sa. Ancora non conosce le regole del gioco. Può succedere a tutti noi. Altro esempio, quello di qualcuno che anche se fluente in una nuova lingua capisce il significato delle parole, delle frasi ma non coglie le sfumature. Per questo spesso non hanno lo stesso grado di ricezione rispetto a quello che hanno in patria”.
Secondo Hendrik Almstadt, dirigente esecutivo di nazionalità tedesca che ha lavorato per la proprietà americane di Aston Villa ed Arsenal, “Questi signori sono per lo più professionisti provenienti dal mondo della finanza. Sono abituati ad un mondo macho fatto di vestiti costosi e su misura e dentature perfette e smaglianti”. Una delle differenze più importanti, continua Almstadt, tra l’industria sportiva Americana ed Europea e che “In America ogni settore, anche il più piccolo è altamente qualificato e professionale. I nuovi proprietari non capiscono che in Europa non sempre è così e quanto l’ambiente sportivo sia molto più informale e basato su reti di contatti personali. Tanto che il proprietario del Liverpool John Henry ha dichiarato che il calcio europeo è come il selvaggio West”.
Sempre secondo Almstadt “Gli americani tendono a credere che un approccio moderno, razionale e analitico farà di loro l’eccezione in un mondo caotico ed impulsivo come quello del calcio europeo. Il problema è che ogni ambiente professionale ha le sue regole e dinamiche stratificate da anni e, nel caso specifico del calcio, manager da lungo tempo, ex giocatori ancora molto influenti ed un ambiente giornalistico molto ostile verso il portatore di rivoluzione e nuove idee. Loro vorrebbero modellare l’ambiente a proprio piacimento senza conoscere però il territorio e le dinamiche di uno uno sport poco familiare, generando spesso l’effetto diametralmente opposto. In America tradizionalmente il proprietario dà le chiavi dell’azienda al manager di turno e se dopo sei mesi le cose non sono andate come ci si aspettava questo viene mandato via e le chiavi passano ad un altro. Questo approccio, che è l’opposto di quello inglese dove avere un manager di lunga durata è una virtù per portare risultati a lungo termine, ha portato ad un numero lunghissimo e senza fine di figure di dubbia utilità in società ed il fatto che essendo tutti contingenti e sostituibili, ci siano meno responsabilità, vengano prese decisioni povere e spesso si crei il panico”.
Anche Arsene Wenger si è espresso a proposito dell’arrivo degli americani in Premier: “Fino a qualche anno fa il collegamento tra questi due mondi sarebbe stato impensabile. Ora pian piano ci stiamo annusando e conoscendo a vicenda. Prima di far scorrere lo champagne passerà ancora qualche anno, sia noi che loro dobbiamo crescere ma le cose stanno iniziando ad andare meglio”.
Chi viene dal mondo senza passione e fatto di soli numeri come quello di Wall Street non comprende e, viceversa, non può essere compreso da quelli che quel mondo non l’hanno mai vissuto cioè i tifosi. Il primo sogna il pareggio di bilancio, il secondo il centravanti da 30 goal a stagione a costo di affossarlo quel bilancio.
Una cosa però è certa, per gli americani il campo ed i risultati derogheranno sempre alla stabilità economica, alla struttura societaria e ai bilanci. Il calciomercato sarà sempre l’ultima cosa a cui pensare, a meno non si debba vendere in quel caso la prima, e la competitività della squadra sarà sempre e solo specchio della possibilità economica di spesa, fredda, senza passione, senza follia ed in alcuni casi senza ambizione. Perchè nel calcio, purtroppo, solo una piccolissima parte dei soldi si fa con le vittorie e ancor meno con i tifosi che vanno allo stadio.