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Alonso alla Dakar: quando la passione non ha confini

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Alonso alla Dakar: quando la passione non ha confini

Un’altra frontiera per il samurai del volante. Domenica 5 gennaio, a Gedda, sulle rive del Mar Rosso, Arabia Saudita occidentale, è suonato il gong della nuova sfida di Fernando Alonso: il rally raid Dakar. Una delle competizioni più affascinanti ed estreme del mondo automobilistico, che approda per la prima volta tra i deserti medio-orientali dopo undici edizioni in Sudamerica e trenta sulla storica rotta “Parigi-Dakar”, per uno tra i più grandi piloti del nostro tempo che, nonostante i trentotto anni e un museo di trionfi, è ancora pervaso dalla fame e dalla sete di nuove avventure.

Che in questo caso sono la sabbia, le dune e i pick-up di una gara dai ritmi massacranti: 5.000 km di prove speciali in tredici giorni. Arrivo previsto venerdì 17 gennaio a Qiddiya, alle porte di Riyad, dopo aver affrontato altipiani e deserti con un solo giorno di riposo a disposizione.

In poche parole, tutto l’esatto contrario per uno cresciuto a pane e velocità su pista. Dove il minimo sobbalzo ghigliottina le ambizioni di vittoria. Dove una frazione di secondo pesa come un decennio. Dove una corsa non supera le ventiquattr’ore. Come Daytona, che ha fatto sua sotto la pioggia il 27 gennaio 2019. O come Le Mans, che l’ha visto esultare per due anni consecutivi (2018 e 2019) alla guida di una Toyota, il team del suo quarto mondiale (il campionato WEC, la categoria regina delle gare di durata) dopo i due allori in Formula-1 e l’iride nei Kart da ragazzo (1996), con la quale affronterà anche la Dakar, esperienza che lo trasfigura in un esempio oltre le quattro ruote.

Perché, esulando per una volta dalle sue note abilità al volante, da quando ha lasciato la Formula-1 l’asturiano è fonte di ammirazione proprio per la voglia di nuove sfide in nuovi ambienti – tra i quali c’è anche la 500 miglia di Indianapolis (dove ritornerà, soprattutto dopo il flop del 2019) – che significano capacità di mettersi in discussione, misurandosi con mezzi e avversari inediti, e insaziabile curiosità di estendere i propri orizzonti umani e professionali senza perdere il gusto per la competizione e la ricerca del successo. Perché ad animare Alonso c’è ancora l’entusiasmo del ragazzino agli esordi in Minardi abbinato alla professionalità del veterano che non intende lasciare niente al caso. La lettura del suo ultimo biennio fa venire in mente un po’ Apollo con Rocky“Dobbiamo stare sempre al centro della mischia, perché siamo dei combattenti. E senza lo stimolo di una sfida, senza una qualche fottuta guerra da combattere, il guerriero può anche morire” – e un po’ la finestra sull’utopia di Eduardo Galeano, che ci ricorda come, più che la meta, sia importante il viaggio. Ovvero il vissuto del nostro cammino, a cominciare dalle emozioni.

We’re ready” ha scritto su i suoi profili social il giorno di Capodanno in una foto che lo ritraeva insieme al suo copilota, il connazionale Marc Coma, già vincitore di cinque Dakar come motociclista. Lo aiuterà a orientarsi lungo il percorso, mentre sarà alle prese con un tipo di auto quasi del tutto sconosciuta, ma con la quale ha già fatto passi da gigante, se si pensa che al primo rally (Marocco, ottobre 2019) ha chiuso 27°, mentre nel successivo, disputato proprio in Arabia Saudita (novembre 2019), è salito sul gradino più basso del podio.

Ma nessuna illusione. Alonso non è certo tra i favoriti per la vittoria finale, perché al debutto e perché circondato da draghi della Dakar come il francese Peterhansel (sedici successi) o il connazionale e amico Carlos Sainz senior (vincitore nel 2010 e 2018). Anche lui, che non difetta certo d’autostima, ha esplicitato cautela alla vigilia: “Sarebbe molto audace pensare a una vittoria”. Però l’indomito spirito del samurai, che più il contesto è estremo e più si esalta tirando fuori energie e qualità impensabili, emergerà anche tra controsterzi sullo sterrato e quotidiane escursioni termiche di almeno venti gradi. E farà sì che il Nano ci provi anche stavolta. A quel punto, nessuno gli potrà dire o fare più niente. Come al ragazzo sognatore della celebre canzone di Roberto Vecchioni. Come a tutti quelli che, mossi dal sacro fuoco della passione, con le loro scelte compongono un inno alla vita.

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Classe 1982, una laurea in "Giornalismo" all'università "La Sapienza" di Roma e un libro-inchiesta, "Atto di Dolore", sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, scritto grazie a più di una copertura, fra le quali quella di appassionato di sport: prima arbitro di calcio a undici, poi allenatore di calcio a cinque e podista amatoriale, infine giornalista. Identità che, insieme a quella di "curioso" di storie italiane avvolte dal mistero, quando è davanti allo specchio lo portano a chiedere al suo interlocutore: ma tu, chi sei?

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