Una vittoria con il retrogusto amaro di una sconfitta. Una valle di lacrime. E come se ce ne fosse bisogno, pioggia a non finire. Non siamo in una drammatica sceneggiatura di un film americano del 1996, ma su un campo da calcio. Definirlo tale significherebbe sminuirlo, ma agli occhi dei veri appassionati quello non era solo un campetto, o ancor meglio uno stadio. Era una seconda casa, in alcuni casi anche la prima. Sono stati scritti fiumi di parole su quanto possa essere romantico il calcio, ma qui andiamo oltre quel senso di amore, si rasenta l’abnegazione e a tratti la follia. Perché per molti il calcio è religione, è qualcosa di viscerale: inspiegabile agli occhi di chi lo definisce soltanto un gioco tra circa ventidue uomini che corrono dietro ad un pallone. E le viscere le abbiamo viste metaforicamente uscire fuori a chi mercoledì cantava sotto l’acqua, nell’ultima notte di Gala del Vicente Calderon. La “Cenerentola” tornava a casa prima della mezzanotte, senza scarpetta di cristallo e con l’ennesimo derby perso, una spada di Damocle ormai che non smetterà mai di ondeggiare sul cuore dei colchoneros. Abbiamo visto bambini battersi il pugno sul petto, orgogliosi di tifare la parte più debole della città. Fondamentalmente tutti sappiamo che l’Atletico è la squadra del Pueblo, di tutti.
Mercoledì è terminata quella magia iniziata 2011, quando El Cholo Diego Simeone ha deciso di sedersi su quella panchina, tornare alle origini e prendere per mano una squadra discreta, ma mai veramente completa. Ha guardato negli occhi la sua Cenerentola, facendola ballare in palcoscenici d’eccezione. Ma le ha fatto anche sollevare trofei, per la precisione cinque in sei anni: è mancata la “scarpetta” più importante, per ben due stagioni. Ma non fa nulla, in quel momento il popolo colchoneros stava attraversando il Nirvana.
Dalla vittoria contro il Barcellona nel quarto di finale del 2014, ben 142 partite internazionali collezionando 104 vittorie, 24 pareggi e solo 14 sconfitte. Un bottino incredibile per l’Atletico Madrid, che dopo il match di Champions non potrà più giocare al Vicente Calderon. Si passerà ad un nuovo impianto, con tetto in grado di chiudersi ed evitare problemi durante le stagioni più fredde. Ma negli occhi di ogni singolo tifoso, rimarranno scolpite nella mente le corse di Diego Simeone (sia da giocatore che da allenatore) o le esultanze di Christian Vieri durante l’anno dei 24 goal. Senza dimenticare quel nono titolo nel 1996 con Radomir Antić seduto in panchina. Mercoledì è stata scritta un’altra pagina di storia del club, che ha chiuso un capitolo. E gli Dei del calcio sono intervenuti ancora una volta, mettendo più di una mano su uno scenario da tragedia shakespeariana: inizio devastante, con due reti che sembravano aver stravolto l’ordine delle cose. Poi un goal che ha tagliato le gambe a tutti, ma non ha reciso le corde vocali di nessuno. Ben quarantacinque minuti di cori, speranza e voglia di rendere indimenticabile questa serata. E nel finale una pioggia a lavare via le lacrime di tutti, per l’ennesima opportunità persa contro i rivali di sempre.
Doveva essere la notte dell’Atletico, ma qualcuno ha deciso che quello di ieri sera rimarrà per sempre un semplice trasloco a 16 chilometri di distanza, nulla più. Cenerentola è tornata a far parte del Pueblo, in lacrime dopo un ceffone di quelli che ti provocano un rossore da almeno due giorni. Rimane l’orgoglio, quello che “non ti fa essere come loro”, quello che differenzia tutti dall’affascinante, quanto sterile, camiseta blanca. E il magone in gola di non aver festeggiato insieme il Grande ballo. Se tutto questo non dovesse essere opera di qualche drammaturgo britannico, potremmo perdere nuovamente tutte le certezze riposte nel mondo del futbol.