Non vedevamo certe cose da venticinque anni, e ci si domanda se se ne sentisse la mancanza. La trentatreesima giornata della Serie A, chiusa lunedì dal 4-1 con il quale la Roma ha mandato in B il derelitto Pescara di Zeman, ha segnato un record pazzesco. L’Italia, un tempo Paese di santi, poeti, navigatori e difese imperforabili, ha vissuto un weekend (in)dimenticabile grazie ad una mastodontica abbuffata di reti, 48 in 10 partite (4,8 di media). Tante, troppe. Al punto da eguagliare il primato assoluto di reti segnate in una singola giornata, ora condiviso con il quinto turno del campionato 92/93. L’unica differenza riguarda il numero di squadre impegnate (18 e non 20) e di conseguenza la media di reti a partita (5,33), tuttavia la sostanza non cambia: non stiamo parlando di un episodio, ma dell’ennesima conferma di un calcio che sta cambiando radicalmente. In peggio.
Ce lo dicono i numeri: la Serie A è ad oggi il terzo campionato in Europa per media gol a partita (2,95, superato solo dalla Super League svizzera e l’Eredivisie) e il primo tra i cinque principali: la Liga spagnola si ferma a 2,86, la Bundesliga a 2,82, la Premier a 2,81 e la Ligue 1 a 2,66. Cosa significa? La risposta non è semplice, ma se si analizza la giornata da record che abbiamo vissuto è possibile arrivare ad una conclusione: la mentalità delle ultime generazioni di allenatori emersi in questi anni è molto diversa dalle precedenti (senza scomodare il credo tattico zemaniano), e, soprattutto, il massimo campionato italiano è sempre più livellato verso il basso. Non a caso, l’unica squadra a non aver incassato reti è stata la Juventus, dominatrice (quasi) incontrastata del torneo e protagonista assoluta anche in Champions League soprattutto per merito di una difesa inespugnabile, capace di subire la miseria di 2 reti in 10 partite (0,2 di media) e non prenderne uno in 180 minuti contro il miglior attacco del mondo. Insomma: la miglior difesa sarà sempre la difesa (ne avevamo parlato a proposito del girone d’andata anomalo del Cagliari), e la storia tutta italiana dei trionfi in Europa e nel mondo di club e nazionali lo dimostrano da sempre con risultati invidiabili.
Non tutti, però, hanno la mentalità pragmatica della Juventus. Almeno in Italia, quasi nessuno. La giornata da record (caratterizzata peraltro da tre rigori sbagliati) l’ha dimostrato con la forza di un uragano mortifero, evidenziando i limiti tecnici di tante, troppe squadre. Siamo passati dal fantozziano 5-4 tra Fiorentina e Inter, assurdo nel rimettere in discussione il confine sottile che separa il calcio dal tennis (è mancato solo il gol del tie-break di Handanovic), al 6-2 di Lazio-Palermo che l’ha annullato definitivamente. Abbiamo assistito inermi agli errori elementari del Milan, riuscito nel miracolo di subire due reti in casa dal peggior attacco d’Europa (l’Empoli, 22 gol in 33 partite), e al dominio assoluto di Juventus e Roma su due squadre che galleggiano in A per meriti non propri (il Genoa) o sono affondati nella serie cadetta dopo aver vinto una sola partita sul campo in tutto il campionato (il Pescara). Le ultime giornate di un campionato sono sempre caratterizzate da una pioggia di reti da calcio balneare, ma stavolta si è esagerato.
Fermiamoci qui, non infieriamo oltre e facciamoci una domanda: le squadre di A sono più offensive di un tempo e di conseguenza maggiormente ingestibili dalle retroguardie avversarie? Oppure non abbiamo più delle organizzazioni difensive all’altezza della nostra tradizione calcistica? La verità sta nel mezzo. Come si diceva in precedenza, le ultime generazioni di allenatori stanno mostrando una tendenza crescente alla ricerca di un calcio più propositivo (includiamo anche il cinquantottenne Sarri, approdato da pochi anni nel calcio che conta), i difensori sono sempre più bravi nel rubare il lavoro agli attaccanti (Bonucci, Caldara) e sempre meno nel fare il proprio (si pensi alla marcatura morbida con la quale Bruno Alves ha permesso a Perica di mettere a segno l’1-0 di Udinese-Cagliari). A questo si aggiunge fatalmente il dislivello enorme che separa i club migliori dagli altri, il calo di motivazioni da parte di molte squadre (cosa c’era in gioco in Chievo-Torino?) e il già citato livellamento verso il basso.
Si pensa genericamente a fare un gol in più, invece di prenderne uno in meno. E agli appassionati di calcio cosa rimane? Un campionato più divertente che ha già portato sei attaccanti oltre le venti segnature, ma più brutto. Uno show da prima serata, al posto di uno sport. La ricerca dello spettacolo ad ogni costo non assicura lo spettacolo, se non argomentato da spunti tattici sufficientemente efficaci ed equilibrati. Finiremo con l’annoiarci, nel vedere una squadra più forte massacrare una vittima sacrificale. E sonnecchiare senza rischiare di essere svegliati dalle urla dei tifosi che hanno abbandonato gli stadi. Il calcio italiano sta cambiando, e lo sta facendo in peggio. Avremmo preferito dimenticare le 48 reti in una giornata tra le pagine ingiallite degli annali di venticinque anni fa. Ed evitato volentieri di comprare un pallottoliere per arrivare pronti al prossimo weekend.