13/5/1990: Dinamo Zagabria – Stella Rossa, venti(due) di Guerra
Se quel giorno le squadre scesero in campo, fu solo per rappresentare la negazione dell’evento che non poteva più verificarsi. Fu per dirsi addio da avversari, sapendo che si sarebbero ritrovati da nemici, più prima che poi: senza linee di gesso, senza regole, su un’erba che sarebbe stata incenerita dai gas venefici; con troppi arbitri impegnati solamente a girarsi dall’altra parte.
Non poteva più sussistere una gara di campionato; perché non poteva esistere il campionato stesso, in una nazione che aveva cominciato a fluttuare spinta dal vento della propria disgregazione. In un paese che iniziava a riconoscersi degno soltanto a seconda delle sue differenti latitudini, dei suoi conflittuali punti di vista. – E per tutti il dolore degli altri è dolore a metà… – cantava Fabrizio De André. La Jugoslavia cominciò a dirsi addio quando gli ultras della Crvena Zvezda, la Stella Rossa di Belgrado, fecero il loro ingresso sugli spalti dello stadio “Maksimir” di Zagabria, con l’intento, secondario, di festeggiare il loro scudetto davanti ai rivali croati. Col bisogno, insopprimibile, di mettere in scena la prova generale dell’odio: politico, religioso, etnico. Gli aggettivi suggeriti dal nostro occidentale punto di vista, che può aiutarci a raccontare, sì, ma con la consapevolezza di non poter del tutto comprendere.
13 maggio 1990: erano trascorsi dieci anni dalla morte del Maresciallo Tito; erano passati sei giorni dalla seconda tornata elettorale in Croazia, dove aveva trionfato l’Unione cosiddetta Democratica dei nazionalisti di Franjo Tudman, fieramente avversati, per usare un eufemismo, dal Movimento cosiddetto Socialista di Slobodan Milošević. È tutto cosiddetto, quando l’odio è a caccia dei suoi pretesti.
Volano i seggiolini, gli insulti e le maledizioni, quando il settore ospiti si riempie: sono entrati i “Delije”, gli eroi della Stella Rossa. Giunti in più di tremila da Belgrado, su un treno del quale all’arrivo a Zagabria restano le ruote o poco più. Alla testa hanno il profilo affilato e lo sguardo inespressivo, quello che distingue chi è nato criminale da chi lo è diventato, di Željko Ražnatović, che ancora abita nella cronaca, quella delle sue fughe dalle carceri di mezza Europa, dei suoi traffici e reati comuni. Farà il suo ingresso nella storia col soprannome di Arkan, e un cucciolo di tigre tenuto per la collottola.
Chiedi di Vukovar, di una distesa di croci.
Riemersi da un diluvio di sassi, i serbi iniziano a distruggere pannelli pubblicitari, quindi ad armeggiare con le vetuste ringhiere che separano i settori. Ribolle come schiuma di orgoglio nazionalista il settore nord, quello dei Bad Blue Boys della Dinamo. Esala vapori di rabbia quando ascolta i cori di Arkan e della sua falange, già improntata a una logica paramilitare nel provocare pestaggi e disordini: – Zagabria è Serbia! -, oppure – Uccideremo Tudjman! -. Dopodiché i serbi riescono a forzare una barriera e a cingere d’assedio una parte del settore croato, perlopiù gremita da giovanissimi ultras della Dinamo. A questi non resta che cercare riparo raggiungendo il terreno di gioco: meglio correre il rischio di cadere nel fossato che finire nella morsa di quelli della Stella Rossa.
Qui si manifesta, in un pomeriggio nato già nel segno della perversione dovuta all’odio, una logica più perversa ancora, presaga di un futuro imminente e senza redenzione: la maggior parte dei celerini presenti sul terreno di gioco sono di origine serba. Si mostrano tolleranti, per usare un eufemismo, nei confronti dei più maturi ultras e nazionalisti serbi, della loro caccia all’uomo verso i croati, molti dei quali sentono in viso prima il manganello di una polizia ostile che i peli tenui della prima barba.
Zvonimir Boban non ha ancora compiuto ventidue anni, quel pomeriggio; non sa, perché non può sapere, che uscirà da quel terreno di gioco, senza aver disputato quell’incontro abortito nell’odio, con le stigmate dell’eroe nazionale, per i croati, tutti, non solo quelli della Dinamo Zagabria. E ancora meno sa che sta per attraversare la linea d’ombra della sua biografica e calcistica innocenza, anche se è già il capitano della Dinamo e porta il numero dieci sulle spalle. Quello che capirà nel tempo è che quel pomeriggio è destinato a rimanere più importante delle prestigiose notti europee con la maglia del Milan, o dell’ingresso nella stanza dei bottoni come membro eminente dell’Uefa. L’odio che sta accecando anche lui, gli rende al tempo stesso acutissima la vista quando trattiene nella retina, imprigionandole per sempre nella coscienza, le immagini di un poliziotto che si accanisce su un tifoso ragazzino della Dinamo. Nell’impatto con il ginocchio di Boban, la mandibola del militare va in frantumi: la più tempestiva metafora di ciò che sta per accadere a tutta la Jugoslavia, che spargerà frammenti d’ossa cattoliche, ortodosse, musulmane, serbe, croate, slovene.
Boban ci rimette il mondiale, mesi di calcio per squalifica. Rischia due anni di carcere. Qualche giorno dopo, sempre al “Maksimir”, la Jugoslavia affronta l’Olanda di Gullit e Van Basten. Il pubblico di casa fischia l’inno nazionale, sulle cui note si leva il coro “Croazia, Croazia!”, intervallato dal nome di Boban ritmato e applaudito.
Cercando di raccontare, siamo ancora più consapevoli di non poter capire del tutto, ora come allora, quello che accadde a una terra le tessere del cui mosaico furono incastrate a forza per troppi anni, con troppa forza. Come la sua nazionale di calcio, della quale si diceva che fosse – Una nazionale per sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti. –
Possono aiutarci le parole di Boban, anni dopo quel pomeriggio, nel ricordare il rapporto differente che ebbe con la maglia delle due nazionali che la fiumana della Storia gli fece sedimentare sulle spalle.
“Per la maglia della Jugoslavia ho dato tutto : l’ho rispettata, ma mai amata. Per quella della Croazia sarei stato pronto a morire. “